Mercoledì 24 settembre, alle ore 17,30, presso la Società Economica di Chiavari, sarà presentato “Come semi di tarassaco – Versi ultimi e penultimi”, libro di poesie del chiavarese Goffredo Feretto. Letture a cura di Pier Curci. Su concessione della casa editrice Internòs, pubblichiamo l’introduzione firmata dal docente universitario Francesco De Nicola.
di FRANCESCO DE NICOLA *
Era il 1997 quando ho letto le ultime poesie di Goffredo Feretto, raccolte in quell’anno nella silloge Tre voci nell’ombra, pubblicata quattro anni dopo il suo libro di esordio nella lirica Il richiamo dell’ombra. Per riprendere scherzosamente la parola chiave dei due libri, non si può certo dire che in questo quasi quarto di secolo Feretto sia rimasto nell’ombra, personaggio iperattivo nel mondo culturale ligure dove ha svolto attività, per lo più letterarie, di prestigio – dal traduttore all’editore – e ha ricoperto cariche pubbliche di grande responsabilità – Assessore alla cultura del Comune di Chiavari – Oltre a ciò, assecondano le sue passioni culturali, ha fatto scelte alquanto bizzarre come quando, già laureatosi in anni giovanili in Giurisprudenza, all’inizio del Duemila percorse lo stesso cammino universitario della figlia e si iscrisse anch’egli alla Facoltà di Lingue dell’Ateneo genovese, diventando studente e poi studioso di lingua e letteratura portoghese e laureandosi con una brillante tesi sulla poetessa brasiliana Adélia Prado.
Mille attività dunque e apparentemente nulla di poesia, ma chi ce l’ha nel sangue non può perderla mai ed allora ecco di nuovo una raccolta di poesie di Feretto, comprendente peraltro anche testi in versi scritti già nel 1992: la parola ombra non è più nel recente titolo, eppure un’ombra c’è pure qui, discreta e assidua: l’ombra appunto della poesia che per lui è la chiave dei suoi sentimenti, dei suoi ricordi, dei suoi dolori e dei suoi piaceri: un’ombra che, con le parole, riflette la vita. E non è un caso che, come vedremo, in più testi Feretto si interroghi proprio sul significato e sull’essenza della poesia e dell’essere, come lui, poeti anche e forse soprattutto quando l’età avanza e sono proprio i versi a misurare lo scorrere inesorabile del tempo.
E così sfilano i ricordi della madre anziana che si avvicina “alla fine del viaggio” con le “tasche colme, lo so, / di risa infantili e di giochi, / di riccioli bruni e tiepidi sogni” (da A mia madre nel giorno del suo compleanno) e la sua immagine decisa ritorna sotto le vesti inattese e inizialmente spiazzanti di un mastino, paragone forse eccessivo per chi legge ma che un “poeta d’accatto […] chiamato a essere sincero” deve presentare mentre “azzanna senza posa la vita” (da Il mastino). E poi c’è il salto inevitabile nel tempo, il richiamo alla poesia Amore tra vecchi sul lago di St.Moritz, a suo tempo inclusa in Tre voci nell’ombra, suggerita allora dall’immagine di una coppia anziana che esprimeva “un ritaglio tiepido / di tenerezza non sopita”, e che ora invece è rappresentazione di se stesso e di sua moglie:
Oggi siamo tornati
sul lago lucente.
E i vecchi siamo noi.
[…]
Ma non ti accorgi
che sono ormai
un grosso animale ferito
o un capodoglio spiaggiato,
che volge intorno un ultimo
sguardo perplesso?
da Ritorno sul lago
In questi versi, scritti da Feretto poco più che sessantenne, l’immagine della vecchiaia che si avvicina è rappresentata con la consueta originalità simbolica, con la tristezza propria di una condizione in via di deterioramento, ma senza alcuna autocommiserazione bensì con lo sguardo forte e sicuro di chi, seguendo la consuetudine materna, è abituato appunto ad azzannare la vita come un mastino. E questa sarà, anche in altri versi, l’immagine forte e battagliera che l’autore, pur non ignaro delle sofferenze, darà di sé, di sé poeta. E questo è un altro argomento che Feretto affronta, anche con ironia, quasi per giustificare la sua ininterrotta, anche se talora segreta, dedizione allo scrivere in versi, come per tornare indietro nel tempo:
[…] Il poeta è un bambino
anche quando vecchio e stanco
ha sul capo il pelo bianco.
Il poeta è un bimbo che
gioca proprio come te,
i suoi giochi son parole
che strapazza come vuole.
Il poeta è un fingitore
della gente ciurmatore,
si fa credere speciale
mentre è poi più che normale
(e alle volte anche banale).
Il poeta è un sognatore
che s’illude in fondo al cuore
di poter gabbare la morte
che a noi tutti tocca in sorte. […]
da Il poeta chi è?
In questa poesia, rivolta a un bimbo quasi in forma di filastrocca, Feretto spiega la ragione del suo poetare e della necessità di raccogliere questi testi che sono una sorta di suo programma, ma anche di suo testamento letterario: la poesia è un gioco – e quindi è piacevole scriverla – ma è anche un sogno – e allora è un’evasione dalla spesso pesante realtà – ; la poesia può essere banale se chi la scrive si sente un essere superiore – e qui la polemica è verso i montaliani “poeti laureati” – e infine la poesia è un modo per non essere ossessionati dalla morte pur se siamo consapevoli che non potremo evitarla.
E proprio sulla morte Feretto presenta qui una serie di cinque poesie composte negli anni 2002 e 2023: senza pessimismo (quasi con l’ironia di Caproni quando si accinge a salire in Paradiso con l’ascensore di Castelletto), ma certo con il rammarico di quanto essa si porta via e per non cadere nel cupo pessimismo, giunge a raffigurarla come una bella e attraente signora: “Scegli me, bella signora. / Sarò un buon amante, / ti seguirò con gioia. / […] Anche se vecchio, / il tuo fiato ridesterà / in me energie giovanili”. E questa immagine di bellezza e di seduzione della morte torna più avanti quando, dopo la legittima ammissione “Del dolore ho paura, / non di te bella signora”, il poeta non esita a dichiarare romanticamente come a una donna desiderata:
Sono pronto da anni,
ma una grazia ti chiedo,
bellissima signora:
vieni con me
soltanto per un’ora.
Andiamo insieme
sul lungomare […]
Poi ti porterò fino alla capanna
di legno e di lamiera […]
Là c’è un letto per la siesta
e io mi sdraierò
mentre tu davanti a me
ti spoglierai.
Non dirmi di no,
voglio vederti nuda
nuda e magnifica
nuda e dominatrice.
da Alla morte, 4
Questa onirica immagine erotica della morte ha probabilmente la sua origine da un ricordo giovanile, come quello che emerge dalla più tenera e romantica poesia Vieni, che è un limpido inno all’amore, altro argomento/sentimento ricorrente in questa raccolta, formata da ispirati e autentici testi in versi che riassumono i piaceri e i dolori della vita.
Vieni, andiamo, nel paese sul mare
che ci ha visti ragazzi innamorati
camminare in silenzio
nelle notti d’estate
e restare abbracciati
nel buio della battigia.
Vieni, andiamo, non è troppo tardi
per ricominciare ad amare
come ci siamo amati noi due
soltanto l’altro ieri.
Se già, ad esempio nella descrizione nuda della morte, abbiamo trovato elementi erotici, proprio a questo versante della vita sessuale Feretto dedica una sezione della raccolta; e sono versi scritti senza vergogna e senza ipocrisia, certo a volte quasi esasperati nelle descrizioni di corpi femminili ritratti nella loro conturbante bellezza. Ma, è inutile negarlo, una delle spie più deprimenti per l’uomo è la progressiva perdita della virilità che allora lascia spazio ai ricordi e ai sogni (e alla rabbia); ma anche quando la narrazione è diretta ed esplicita, come nella poesia che segue, è sempre la delicatezza, qui una delicatezza carnale, a segnarla:
Non sono belle
le tue mani. […]
Eppure
le sogno su me,
sul mio viso,
sul petto,
sul pene ormai fiacco
che risorge
per renderti omaggio
e dirti grazie,
grazie di essere viva,
grazie di esserti chinata
su un patetico vecchio
pieno ancora
di sogni.
E infine, nella terza sezione della silloge troviamo la terra della fuga dalla realtà, il Portogallo, la notte di Lisbona allietata dalle chitarre portoghesi, nel ricordo di un amore giovane e dove regna sovrana e ovunque la poesia:
A ogni angolo
di questa città grigia
ma piena d’azzurro
di sguardi ciechi
c’è poesia.
Ad ogni angolo di Lisbona,
Lisbona vive. […]
C’è poesia qui
nelle tenere parole
di donne chiare
cui non piacciono i poeti. […]
C’è poesia qui,
sì c’è poesia
perché Lisbona è poesia
sebbene sia una città
colma di occhi ciechi.
Ed è lo stesso Feretto a dichiarare esplicitamente la ragione dell’attrazione esercitata dal Portogallo su di lui, progressivamente tanto più forte ora che gli anni passano veloci, un po’ malinconici (e come non potrebbero esserlo?), ma anche vissuti con un misto tra dolcezza, onnipresente anche se mai esibita, e il piglio materno:
Portogallo è sogno,
il mio sogno.
E che cosa sogno?
La mia giovinezza, forse,
quella che non ebbi mai,
anche se ho avuto vent’anni.
Forse la mia giovinezza
è oggi la lingua portoghese. […]
Dal mare fino alle montagne
è tutto un liquido fluttuare
di parole lievi
come sogni mattutini,
parole che gocciolano acqua salata
perché si sono immerse negli oceani
del mondo intero
e si sono intrise di tutti gli umori
e di tutti i profumi,
di tutto il dolore
e di ogni allegria.
E proprio in questa poesia, ricca di immagini leggere ma non per questo prive di significato profondo, si racchiude il significato di questo pregevole libro di versi di Goffredo Feretto; solo la magia delle parole della poesia può e sa rappresentare l’uomo, con il suo dolore e la sua allegria, nelle diverse stagioni della vita; e qui Feretto scrive da vecchio, come più volte si definisce evitando perifrasi vane, sapendo però evitare, pur avvolto da ricordi e da sogni, il vacuo lamento e l’autocommiserazione, ma dando invece addirittura, come nelle poesie erotiche, tracce di non perduta vitalità.
E così, verso dopo verso, Feretto, con la sua sensibilità nutrita da letture tanto sterminate quanto appassionate, ci porta ad assaporare la forza e la bellezza della poesia e a sottolineare la necessità di leggerla e di scriverla, anche se passano decenni prima di pubblicarla; ma l’importante è che non ci lasci e ci permetta una, altrimenti rara, visione della vita nella sua bellezza e profondità interiore.
