di ANTONIO GOZZI
All’età di 97 anni, pochi giorni fa, si è spento Cesare Romiti, il manager che guidò la Fiat per un lungo periodo dal 1976 al 1998.
Le pagine dei quotidiani hanno ospitato moltissimi articoli e commenti sulla storia dell’uomo, sul ruolo fondamentale che ebbe in Fiat, sul suo rapporto con la famiglia Agnelli, sui principi e valori che ne ispirarono l’azione.
A me sembra che il punto centrale non del tutto colto dai vari commentatori sia la capacità che Romiti ha avuto, in anni difficilissimi e tremendi, di salvare il concetto di impresa in Italia. Intendo con ciò la durissima battaglia (ecco perché il titolo un manager combattente) per difendere i principi di mercato, di libertà di iniziativa e di azione, di merito e di competenza che costituiscono le precondizioni che rendono possibile fare impresa, precondizioni senza tutela delle quali il sistema industriale italiano sarebbe morto.
Se oggi un sistema industriale italiano esiste, e se in molti comparti esso è all’avanguardia nel mondo, e se è abbastanza chiaro a tutti (negli ultimi tempi persino a quelli del M5S) che a sostenere il paese sono le imprese, chi le gestisce e chi vi investe, lo si deve a quella battaglia.
Anni difficilissimi e tremendi, si diceva poc’anzi, quelli in cui Romiti operò. Anni nei quali tra l’inizio degli anni ’70 e la metà degli anni ’80 l’industria italiana in generale ma in particolare quella metalmeccanica e il comparto dell’auto e del suo indotto, che ne costituivano grande parte, dovettero affrontare una gravissima crisi fatta di prezzo del petrolio quadruplicato, di inflazione rampante sempre a due cifre, di un estremismo sindacale interpretato non solo dalle frange estreme ma anche da settori della componente comunista del sindacato che rimettevano in discussione la stessa esistenza di un capitalismo industriale.
Le grandi fabbriche erano strette in una tenaglia fatta da un potere sindacale incompatibile con un moderno e competitivo sistema industriale, e un terrorismo rosso, frutto degenerato dell’ideologia e dell’estremismo comunista, che ammazzava, prevalentemente la mattina, dirigenti e quadri industriali all’ingresso delle fabbriche, professori all’ingresso delle lezioni universitarie, magistrati all’ingresso dei tribunali e giornalisti.
Il terrorismo nero metteva bombe sui treni e nelle piazze, e il mix di tutto ciò aveva creato una situazione in cui molti dubitavano che l’Italia si potesse salvare.
Furono appunto “gli anni di piombo” di cui i nostri giovani sentono poco parlare e che invece bisognerebbe molto più ricordare, per spiegare i mostri generati da un’ideologia sconfitta dalla storia, ma anche la capacità di resistenza e di riscossa del Paese proprio nelle componenti più legate all’industria e alla manifattura.
Nelle fabbriche non ci furono solo incendi, capi gambizzati o uccisi o avvolti nelle bandiere rosse, malmenati e trascinati alla testa di cortei interni violenti, od occupazioni e scioperi improvvisi e altrettanto violenti. Ci fu anche la reazione, proprio a Torino, della marcia dei 40 mila, impiegati, quadri, tecnici della Fiat e dell’indotto, che invasero la città chiedendo di poter lavorare e rientrare in una fabbrica i cui ingressi erano da tempo bloccati dal sindacato e davanti ai quali il segretario del Partito Comunista Italiano, Enrico Berlinguer, aveva dichiarato l’appoggio suo e del suo partito ad un’eventuale occupazione della Fiat.
Una reazione di popolo, sì anche quella di popolo, dietro la quale si poteva chiaramente intravedere la tenuta di Romiti e di tutto il management della Fiat. Una reazione che cambiò i rapporti di forza e che fu fondamentale per ciò che successe dopo, a partire dal referendum abrogativo voluto dal PCI e dalla componente comunista della Cgil contro il decreto del Governo Craxi che sterilizzava i punti di scala mobile per cercare di contenere l’inflazione. Un referendum perso dai suoi proponenti, che fecero un grave errore politico mostrando ancora una volta la loro avversione alle imprese e al mercato.
In quegli anni il ruolo di Romiti alla testa della Fiat fu fondamentale, perché tenne la barra dritta e mostrò ai molti titubanti e spaventati, anche tra gli industriali, che su alcuni principi non ci potevano essere compromessi, in particolare sulla libertà di impresa e sul governo delle fabbriche.
Giustamente è stato ricordato che quello fu veramente un punto di svolta, e che bisognerà aspettare fino al 2010 per trovarne uno analogo per importanza e conseguenze: il referendum di Mirafiori e Pomigliano. Marchionne voleva introdurre il word class manufacturing per aumentare la produttività degli stabilimenti, e vi fu un accordo fatto con Fim-Cisl e Uilm per l’avvio della nuova metodologia. La Cgil di nuovo si opponeva fieramente a quell’accordo, e nuovamente chiese un referendum tra gli operai, che regolarmente perse. “Sembrava una cosa impossibile – ha scritto recentemente Marco Bentivogli – Pomigliano era ricordato per essere uno degli stabilimenti più inefficienti. Dopo quell’accordo ha in poco tempo vinto premi in tutto il mondo come impianto tra i più produttivi”.
Possiamo dire che senza Romiti e la sua azione in quegli anni difficilissimi e tremendi Marchionne probabilmente non sarebbe mai esistito.
La modernizzazione del sistema industriale italiano e il suo rilancio che, sia pure ridimensionato, l’ha portato ai giorni nostri nasce dalle battaglie sui principi di allora.
Non si può mai mollare la presa, venti antindustriali e antimpresa continuano a soffiare, ma la battaglia campale contro chi voleva la fine del sistema industriale e di mercato in Italia è stata vinta, e imprese sempre più avanzate e tecnologiche e sempre più inclusive dal punto di vista sociale sono il futuro dell’Italia.
Ma dove sta allora il nodo da sciogliere per riportare lo sviluppo nel nostro Paese, fanalino di coda europeo da almeno un decennio quanto a crescita del PIL? Quali sono oggi i terreni a cui applicare lo spirito modernizzatore di Romiti?
Il problema dell’Italia appare in maniera sempre più evidente essere una statualità bassa e precaria, e comunque non all’altezza di quella dei migliori paesi europei.
Una Pubblica Amministrazione ancora poco digitalizzata e che ha perso la capacità di ‘trasformare’ le leggi in azioni in tempi rapidi e modi efficienti, un sistema giudiziario civile e penale tra i più inefficienti del mondo sviluppato che fa scappare gli investimenti esteri, una burocrazia asfissiante e opprimente che non consente se non in casi eccezionali (vedi il ponte di Genova) il dispiegarsi degli investimenti pubblici e privati, un sistema formativo, specie nella sua componente tecnica, incapace di tenere il passo dei migliori (la differenza tra periti tecnici sfornati ogni anno dai nostri istituti e da quelli tedeschi è clamorosa) e via elencando.
Qui sta il nodo. In questa nuova drammatica situazione dobbiamo trovare dei nuovi Romiti capaci di dare una svolta e vincere la battaglia della modernizzazione dello Stato. Anche in questo caso si tratta di battaglia di principi, ma introdurre concetti come quelli di efficienza, merito, competenza, competitività in un sistema consociativo come quello della statualità italiana non appare facile. È questa la grande sfida che sta dinanzi alle giovani generazioni.