di SABINA CROCE
‘Cento volte sabato’ (‘One hundred Saturdays’ è il titolo originale) è l’ultimo eccellente lavoro di Michael Frank, già noto ai nostri lettori per essere venuto a presentarci nel 2018 il suo memoir ‘I formidabili Frank’.
Con ‘Cento volte sabato’ Michael Frank ci regala e condivide con noi la conoscenza di un personaggio straordinario: Stella Levi, ultracentenaria sopravvissuta alla deportazione degli ebrei di Rodi.
Michael conosce Stella otto anni fa a New York, dove entrambi vivono. Stella, a 92 anni, è attiva nelle organizzazioni che ricordano la Shoah e, in un suo modo riservato ed elegante, è decisa a partecipare alla vita intellettuale del suo quartiere, del suo mondo e del suo tempo. Interpella Michael perché è curiosa di lui, ed evidentemente ciò che vede la soddisfa. Ha scritto qualche pagina sulla sua vita giovanile a Rodi e, attraverso una comune amica, gli fa chiedere se sarebbe disposto ad aiutarla con la stesura dal momento che non si fida dell’appropriatezza dell’uso della lingua.
Nasce così una frequentazione che durerà, appunto sei anni: sei anni di interviste che si ripetono di sabato in sabato, e che giungeranno a dipanare la storia di Stella ma anche a tratteggiare un personaggio davvero affascinante e degno di nota dal punto di vista umano.
Se Stella è, a detta dello stesso Michael, una moderna Sheherazade, bravissima a lasciare sempre, di sabato in sabato, qualcosa di accennato e non definito nel suo racconto che permetta di far salire l’aspettativa per il sabato successivo, Michael Frank lavora al suo personaggio girando rispettosamente intorno a lei (Stella impone rispetto) come uno scultore intorno al blocco di marmo, togliendo qualcosa qua e là, lasciando emergere la forma a poco a poco, alimentando continuamente la curiosità del lettore.
Stella nasce a Rodi nel 1923. Una gran parte del libro è dedicata alla Rodi dei suoi anni giovanili, fino alla deportazione ad Auschwitz del 1944.
Gli ebrei sefarditi di Rodi vi avevano preso stanza fin dal XV e XVI secolo, in fuga dalla Spagna, parlavano una lingua giudaico-spagnola, vivevano tutti riuniti in un quartiere detto ‘la Judería’, coltivavano tradizioni antichissime e immutate da secoli. Suoni, odori, sapori, usanze, proverbi costituivano l’ossatura di una cultura secolare, che si esprimeva anche in una cultura della cura medicamentosa e rituale quasi completamente affidata alle donne. Ma sulla spinta del nuovo secolo, quella cultura antica era insidiata da un desiderio di modernità: i giovani come Stella, i suoi amici e i suoi fratelli e sorelle si sentivano stretti nei lacci della tradizione, ed anelavano alla libertà e a valicare l’orizzonte angusto dell’isola.
Curiosamente (per noi) la modernità a Rodi parlava italiano: giunti sull’isola nel 1912 e poi confermati nel 1923, gli italiani vi portarono luce e acqua, libertà di scegliere il posto dove vivere; e poi il teatro, i cinema, musei, scuole, circoli; e poi ancora moda, letteratura, sport, ed un’aura di vita occidentale mai vista prima.
E poi, dopo la promessa di libertà e l’allargamento degli orizzonti culturali, gli stessi italiani tolgono a Stella e ai suoi coetanei ebrei il diritto di andare a scuola, di aspirare ad una cittadinanza, ad una carriera, ad andare a studiare in Italia. È il 1938.
Da allora nulla è più come prima. Se Stella comincia a manifestare la resilienza che costituirà il suo tratto più saliente, l’orizzonte si incupisce, il padre declina negli affari e nella salute, gli italiani cedono il passo ai tedeschi che nel luglio 1944, quando già per loro la guerra era quasi persa, radunano tutti gli ebrei dell’isola e li deportano ad Auschwitz. Pochissimi sopravviveranno, tra essi Sami Modiano.
La storia di Stella nei campi è relativamente breve nell’economia del libro, ma convenientemente intensa, a un tempo quotidiana e feroce. Emerge in mille episodi la sua capacità di concentrarsi sull’attimo, di negarsi pensieri sul passato e progetti per il futuro, di voler soltanto sopravvivere nel presente, per sé e per i suoi. Una capacità che Stella stessa riconosce come maggiore nelle donne che non negli uomini, e che lei possiede in grado superiore anche a quasi tutte le altre donne: la capacità di cantare, ridere, organizzarsi, cogliere ogni occasione, lavarsi i capelli, adattarsi a dinamiche sempre nuove. Non piangere mai.
Quando esce dai campi Stella ha ventitré anni e ancora una lunghissima vita davanti. Sceglie di trascorrerla a New York, città forse adatta più di altre ad accogliere persone che hanno dietro di sé le vite e le esperienze più diverse e quindi a confrontarsi senza giudicare.
Stella resterà tutta la vita una outsider. Brillante e capace, saprà inventarsi sempre nuovi interessi, avrà una vita dinamica e ricca di amicizie, ma non avrà una vita familiare serena né soddisfacente.
Rifiuterà sempre di farsi ridurre ad una sopravvissuta dei campi, ad una mera testimone dell’Olocausto. Lei è più di questo.
Leggendo il ritratto che ne fa Michael io mi sono fatta di Stella l’idea che si tratti di una di quelle rare persone che possiedono al massimo grado la capacità di essere tutt’uno con la propria essenza vitale. Stella sopravvive perché Stella ‘è’. Non ha bisogno di giustificare la propria esistenza con una carriera, o con un successo accademico, o con una riuscita come moglie o come madre. Non ne ha bisogno così come non ne ha bisogno un fiore o una pianta; magari uno di quei gingko biloba che sono sopravvissuti alla bomba di Hiroshima. Come Stella, sono ancora qui con noi, e la bomba è solo una cicatrice nel mezzo del fusto.
