di DANIELE LAZZARIN *
“Stai zitta” era il titolo del libro di Michela Murgia che disvelava gli effetti mortificanti delle parole, anzi di tutto un linguaggio, che imponeva (o si dovrebbe usare il presente?) alle donne fin da bambine il silenzio nei discorsi che contano, inducendo loro stesse alla convinzione di una presunta inferiorità.
Si tratta di un tema affrontato più volte e in forme diverse nella ricca carriera di Paola Cortellesi, attrice e imitatrice, e basterebbe ricordare la sua interpretazione in “Scusate se esisto”, film del 2014 diretto dal marito Riccardo Milani, ma sceneggiato anche da lei con Ivan Cotroneo, Furio Andreotti e Giulia Calenda, figlia della regista Cristina Comencini, ma qualcuno direbbe piuttosto sorella del noto uomo politico.
In team sempre con Furio e Giulia nella sceneggiatura, al suo debutto come regista Cortellesi sceglie di andare oltre in questo tema: Delia, la protagonista da lei interpretata di “C’è ancora domani”, fin dal risveglio nel letto matrimoniale, con un topino sotto il letto quasi a richiamare la storia di Cenerentola, viene subito zittita da Ivano (marito manesco caricaturalmente interpretato da Valerio Mastandrea), che come primo gesto della giornata risponde al suo “buongiorno” con uno schiaffone, per ricordarle nel caso l’avesse dimenticato qual è il suo posto e chi comanda in quella casa.
Così inizia la storia di formazione di Delia, in una Roma del 1946 che saluta il giorno sulle note idilliche di “Aprite le finestre al primo sole”, canzone in realtà scritta dieci anni dopo. Seguono tutte le fatiche della giornata: servire la colazione a marito e figli, due ragazzini che tra parolacce e prepotenze sembrano avviati sulla stessa strada del padre, in una scena che ricorda il capolavoro di Ettore Scola “Una giornata particolare”; e qui potrebbe nascere il dubbio che Cortellesi, grande imitatrice, voglia riprendere i modi della commedia all’italiana, o addirittura si ispiri al Neorealismo umanistico e alle grandi interpreti di Rossellini e De Sica, come confermerebbe la scelta del bianco e nero nella fotografia, con due formati diversi però, che alludono espressivamente e stilisticamente, come pure la musica, a due piani: quello del passato e quello del presente attuale.
Sicuramente c’è un omaggio al grande cinema italiano e la ricostruzione storica è perfetta, soprattutto nelle immagini; ma vi è un’atmosfera che rivela un tocco personale e originale non appena Delia esce di casa per tutte le fatiche quotidiane con cui cerca di guadagnare qualche lira, non solo per contribuire al bilancio familiare, ma anche per mettere insieme di nascosto, dato che il marito le requisisce tutti i soldi anche per andare “a donnacce”, un gruzzoletto per l’abito da sposa della figlia Marcella (egregiamente interpretata da Romana Maggiora Vergano).
Riaffiorano con lo scorrere delle immagini la semplicità di vita, la quotidianità e l’ingenuità dei rapporti e talvolta la solidarietà di una dimensione popolare che ormai appartiene ai miti e racconti familiari, che nostalgicamente idealizzano un tempo in cui certamente non mancavano torti e ingiustizie; ma come in questi ricordi, Delia affronta con leggerezza e speranza la sua quotidianità, forse rimuovendo delusioni e umiliazioni (Marcella ogni tanto le chiede come faccia a sopportarle e perché non se ne vada; “ma dove?”, risponde Delia).
Nel suo “viaggio” quotidiano va in giro a far punture, ripara ombrelli insegnando come farlo a un apprendista che guadagna più di lei perché “è maschio”, consegna e ritira da una merciaia biancheria da rammendare, entra in una casa di ricchi dove scopre con un’occhiata che anche la raffinata e colta padrona di casa viene rimessa al suo posto dal marito per aver espresso un’opinione interrompendo una conversazione “seria” tra uomini, dato che certi argomenti “non le competono”; fa poi amicizia nonostante la barriera linguistica con un giovane soldato afroamericano, poiché l’ordine in città è ancora mantenuto dalla polizia militare alleata, dialoga brevemente con il meccanico Nino, un suo antico amore platonico, ma soprattutto si intrattiene con l’unica sua confidente, una verduraia (Emanuela Fanelli) sposata con un brav’uomo, un’amica che le ricorda che i soldi che sta mettendo da parte sono suoi, che non sta rubando nulla al marito. La ricostruzione degli ambienti sociali romani, quello popolare, quello piccolo borghese e quello più elevato, separato da tutti gli altri, è perfetta. Gli esterni sono girati al Testaccio, dove rinasce la Roma dei cortili, come quello che si intravede dalla finestra del seminterrato in cui abita Delia, popolato di comari che chiacchierano e commentano tutto ciò che accade intorno, come un coro litigioso ma rassegnato.
Il sistema dei personaggi è piuttosto semplice: da un lato marito e suocero, infermo ma capace ancora di allungare le mani sulla nuora che lo accudisce, mezzo orco e mezzo patriarca, che esercita la sua autorità sul figlio dandogli anche consigli: le botte alla moglie devono essere date meno frequentemente ma più forti, in modo che se le ricordi bene. Scopriremo che non sfugge a questa logica neppure il fidanzato della figlia, gradito alla famiglia perché e finché benestante. Dall’altra le donne, costrette a subire e a faticare, ma con scarsa consapevolezza della loro condizione. Ma tutto inizia a cambiare quando a Delia arriva una lettera misteriosa, consegnatale di nascosto dalla portinaia. Sullo sfondo della vicenda i manifesti elettorali, perché siamo alla vigilia del referendum istituzionale del 2 giugno, in cui si sarebbe eletta anche l’Assemblea Costituente: per la prima volta in Italia viene concesso il diritto di voto alle donne, che in massa si recano alle urne. Ventuno furono elette, ma nel film non si parla delle donne eccezionali, ma di Delia, una donna semplice e sottomessa che compie un percorso personale di emancipazione psicologica e di consapevolezza, e che trasmette questa testimonianza alla figlia.
Non vi sono qui donne che lottano apertamente e manifestano in piazza, non ci sono suffragette come nel film di Sarah Gavron, ma finiamo per aderire al messaggio pedagogico che attraverso la dimensione umana e la recitazione di Paola Cortellesi, un personaggio vero vicino ad altri che riescono solo ad essere caricature o macchiette, invita a riflettere non solo sull’importanza del diritto di espressione e di voto, ma soprattutto sulla rivoluzione psicologica che resta da compiere per una reale emancipazione femminile, pietra angolare di ogni altro riscatto e riforma sociale.
Vi è nel film un equilibrio fra dramma, commedia, documento storico-educativo e musical, con canzoni che rivestono un ruolo semantico e narrativo e con l’intervento ironico della regista che preferisce mostrare le scene di botte come una danza rituale al rallentatore più che accentuarne ad effetto la violenza, per suggerire intuitivamente le difese che Delia mette in atto per sopravvivere al disamore e alla frustrazione; è un equilibrio che porta alla commozione, ma non alle lacrime, e che nella sua capacità di coinvolgere e divertire ha riscosso un grande successo di pubblico, come una volta accadeva alle forme di spettacolo “nazional-popolare”, riportando questo concetto più alla formula gramsciana che alla sua connotazione riduttiva.
(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)