di GIORGIO ‘GETTO’ VIARENGO *
Un mattino drammatico, nella desolazione del Campo 52 di Calvari, in Fontanabuona comune di Coreglia Ligure, si consuma la cronaca di una tragedia: le SS tedesche, con la presenza del maresciallo Max Ablinger, prelevano l’ultimo gruppo di ebrei arrestati nel nostro territorio. Da tempo continuo a ricercare e ricostruire i più piccoli dettagli di questa storia, la motivazione principale è data dalla necessità assoluta di realizzare una memoria forte, precisa, capace di narrare l’orrore di chi partiva dal Tigullio per raggiungere le camere a gas del campo di sterminio di Auschwitz.
Delle diverse famiglie presenti, vorrei narrare qui la vicenda dei Vitale Ovazza, una famiglia della comunità ebraica genovese. La loro abitazione era nella centrale via Mura del Prato, nel quartiere Carignano. A guidare il tentativo disperato di salvezza è la signora Ada Ovazza, moglie di Eugenio Vitale, con i loro figlioli Sergio di sedici anni e Aldo di dodici. A pochi metri dalla loro abitazione, in via Milazzo, i nonni Cesare e Celestina Leivi.
Con l’occupazione tedesca e i nuovi drammatici provvedimenti contro gli ebrei i Vitale tentano di trovare asilo in Svizzera, lasciando Genova per raggiungere la frontiera della speranza, una meta già praticata da altri esuli della loro comunità. La strada verso la sospirata libertà passava per la frontiera di Chiavenna, dove cercano l’espatrio: è il 10 dicembre del 1943. Purtroppo i contrabbandieri, che dovevano garantire loro un passaggio sicuro, li tradiscono, e vengono tutti arrestati e dopo poche ore tradotti al carcere di Varese. Le procedure di polizia li trasferiscono nel territorio di competenza: per la provincia di Genova si tratta del campo di Calvari. Nel tentativo d’espatrio si era unita al gruppo anche la madre di Ada, Elvira Vitale, che in quel tempo era residente a Milano. Per gli stessi motivi di competenza territoriale, Elvira venne invece portata nel carcere milanese di San Vittore.
Nella seconda metà di dicembre la famiglia Vitale è interamente reclusa nel campo di Calvari. Da qui partono diverse lettere per richiedere il ricongiungimento con Elvira, anziana e dolorante. I documenti in nostro possesso sono tre lettere ed una cartolina postale, con le date riportate a lato o ricavabili dal timbro postale. Il primo documento epistolare è la lettera di un delatore, di un collaboratore dei nazifascisti che scrive da Camogli al capo della Polizia Repubblicana. Tullio Tamburini (Capo della Polizia Repubblicana dall’ottobre 1943 all’aprile 1944) riceve la missiva il 18 dicembre 1943, con informazioni precise: “Vengo ora a conoscenza di quanto ti riferisco e credo ti potrà essere utile”. Il delatore segnala la partenza da Genova degli ebrei, ne indica il percorso e le modalità d’espatrio. Il piano della famiglia genovese prevedeva un primo spostamento in treno sino a Milano, poi un trasferimento in torpedone sino a raggiungere Chiavenna; qui avrebbero incontrato “uno spallone”, un contrabbandiere che li avrebbe guidati verso il varco nel territorio svizzero. Il contrabbandiere garantiva, con un lauto risarcimento, il miglior percorso sicuro, le giuste connivenze e i sotterfugi per superare la frontiera che garantiva la salvezza.
Ora la cronaca si sposta, con le parole di Ada, al 9 dicembre del 1943, il pomeriggio è scuro, gelido, arriviamo tutti all’appuntamento verso le 16: “Dopo una lunga strada piena di curve appare la scritta: Chiavenna. Siamo arrivati! Il nostro gruppo ha uno scambio di sguardi, quando incontro gli occhi dei miei due figli accenno un sorriso. In una piazza il mezzo gira su sé stesso, dopo un colpo di claxon e una robusta accelerata si ferma spalancando le porte. Scendiamo raccogliendo le nostre poche cose, mio marito Eugenio cerca con lo sguardo il nostro uomo. Alla partenza hanno descritto l’accompagnatore come persona vestita da cacciatore: pesante giacca di fustagno marrone, pantaloni di velluto e stivali. Eccolo! Ci siamo riconosciuti! Ci fa un cenno senza fare parola, lo seguiamo, si ferma davanti ad un’osteria, ci segna con una mano d’attendere, entra; dopo poco riesce e fa cenno d’entrare. L’oste non ci degna di uno sguardo, ci sediamo intorno ad un tavolo: vi aspettavo, adesso rifocillatevi, appena fa buio si parte, adesso dovete darmi la caparra, sono 10 mila lire! Dovete darle in contanti, mi servono per chiudere alcuni occhi durante il viaggio. Il saldo alla frontiera”.
Ora il buio è calato nelle profonde vallate che segnano il confine tra Italia e Svizzera, si può iniziare il duro percorso. La strada sarà durissima, l’ombra del delatore e della sua lettera si allunga sui fuggiaschi che non raggiungeranno mai il varco svizzero, ma entreranno in una casermetta dei repubblichini. La situazione precipita con l’arresto il trasferimento per competenza a Calvari dei genovesi, mentre i nonni milanesi entravano in carcere a San Vittore.
Da Calvari partono due lettere scritte da mamma Ada, una a degli amici di famiglia, l’altra alle autorità fasciste di Milano per chiedere il ricongiungimento con i propri cari detenuti a San Vittore. Ora giungiamo al mattino del 21 gennaio, le SS genovesi prelevano i detenuti di Calvari, tra loro gli Ovazza Vitale, il viaggio prevede il trasferimento a Milano San Vittore. Gli ebrei razziati sono seicentocinque e saranno tutti trasferiti al Binario 21; il 30 gennaio il lungo convoglio muoveva verso Auschwitz. Il viaggio durò sei giorni; mamma Ada scrisse un’ultima cartolina che venne lanciata dallo sportellone del convoglio.
Quella disperata missiva fu raccolta e imbucata, da una generosa mano rimasta sconosciuta, e recapitata. Vi si trovava l’ultima traccia di un viaggio senza ritorno: “Ci stanno portando in Alta Slesia”. Ora il binario entrava ad Auschwitz, si scendeva, la selezione, gli Ovazza Vitale entravano in camera a gas. Di loro resta solo la cartolina lanciata dal treno, a noi il compito della memoria.
(* storico e studioso delle tradizioni locali)