di ALBERTO BRUZZONE
“Il calcio italiano è finito contaminato da quel miscuglio di mecenatismo, nepotismo e familismo amorale che, ostentando i momentanei successi e il potere per il potere, ha avvelenato il paese impedendo ogni lungimirante e tempestiva spinta verso la modernizzazione. Il calcio italiano si è ritrovato invischiato in questa mestizia da cui vorrebbe districarsi, ma in cui ancora si dibatte disordinatamente. A metà del guado. Quando i competitor internazionali, inglesi, spagnoli e tedeschi, hanno cominciato a rincorrerle e a superarle, le società di Serie A si sono ritrovate con il fiato corto, di colpo malandate e prive di idee. Tranne le poche che stanno faticosamente tentando di rimodellare il proprio core business. Il calcio italiano, asfissiato da astuzie, sotterfugi e campanilismi esasperati, è morto così”.
E ancora: “I miliardi piovuti sul campionato italiano grazie alle pay tv non sono stati impiegati per investimenti di lungo termine sulle infrastrutture sportive e sui vivai, ma riversati su giocatori e procuratori o peggio distratti dalle casse dei club per coprire gli ammanchi di altre aziende di proprietà dei patron. I dissesti avvenuti dagli anni Duemila in poi sono stati provocati da questa deriva illecita, prim’ancora che da carenze gestionali interne alle società di calcio”.
Marco Bellinazzo, firma autorevole de ‘Il Sole 24 Ore’ e tra i principali esperti in Italia del rapporto tra calcio e finanza e, più in generale, tra sport e finanza, scriveva questi concetti, e molti altri, nel 2018, nel suo libro ‘La fine del calcio italiano’, edito da Feltrinelli. In quelle pagine, si delineava una cura possibile per arginare quanto sopra, ma non solo la cura non è stata tentata, bensì il quadro generale è andato modificandosi. Le grandi famiglie o i singoli proprietari di club stanno a poco a poco scomparendo, uno dietro l’altro: la cessione del Genoa da Enrico Preziosi al fondo americano 777 Partners è quindi l’occasione per tracciare con Bellinazzo lo stato dell’arte attuale del calcio in Italia, inteso come sport industry.
Bellinazzo, gran parte delle sue previsioni si sono avverate.
“Avevo disegnato, in effetti, lo scenario attuale ne ‘La fine del calcio italiano’. Ma non perché sia un indovino, semplicemente perché le premesse stavano tutte in quei termini e perché la direzione era ormai tracciata. Un certo modello di gestione delle società di calcio, diciamo a conduzione familiare, stava e sta a poco a poco finendo, perché queste gestioni non hanno saputo seguire le evoluzioni dello sport business. Il calcio si sta sempre più affermando come un modello industriale ed è chiaro che, in questa fase, bisogna essere molto meno romantici e molto più buoni amministratori”.
Anche la pandemia ha dato il colpo di grazia ai club.
“Certamente sì, anche la pandemia ha indebolito i club, con tutta una serie di introiti che sono mancati. Ora, per far fronte a tutto questo, occorrono capitali che in Italia non ci sono, o probabilmente non c’è più la volontà di investirli. Il calcio italiano, però, è ancora particolarmente attrattivo, nel senso di prodotto in generale da promuovere e ‘vendere’ anche all’estero: c’è una grossa quantità di brand storici, alcuni dei quali con una buona rilevanza internazionale e, al tempo stesso, ci sono proprietà sempre più fragili e sempre più aggredibili”.
Ed ecco che entrano in gioco i fondi.
“La Serie A è sempre più straniera, sull’esempio della Premier League. La differenza è che la Premier League è ormai un campionato al quale diventa molto difficile avvicinarsi, perché i costi sono mostruosi, mentre acquistare un club di medie dimensioni in Italia può avere la sua convenienza. Il fenomeno degli stranieri riguarda però tutta l’Europa: si è partiti con i russi, come Abramovich, poi sono arrivati gli americani, poi gli sceicchi, poi i cinesi. Adesso è di nuovo la volta degli americani, che sono i principali investitori nel calcio europeo. Possiedono più di quaranta club in giro per l’Europa, a livello di proprietà individuale o a livello di fondi. Ma, come dicevo, siccome la Premier costa cara e in Germania non è prevista la possibilità di un loro ingresso, ecco che si sono concentrati in Italia, dove i club sono anche più appetibili rispetto a Francia e Spagna”.
Ma quali sono i loro obiettivi e come queste proprietà possono conciliarsi con le tifoserie?
“C’è da dire che, spesso, gli americani hanno poca dimestichezza con il calcio, mentre i loro modelli di business arrivano dal football o dal baseball. L’intenzione però è quella di replicarli anche nel mondo del pallone. A queste proprietà interessa certamente il risultato sportivo, come ai tifosi, ma per loro è prioritario anche quello che succede oltre alla partita. Un tempo, possedere un club di calcio era ‘potere per il potere’, cioè aveva risvolti di natura sociale o politica, o anche economica, ma con una visione differente. Le proprietà straniere sono orientate a fare business tout-court: per far questo, puntano a uno stadio redditizio, che sia aperto tutti i giorni, anche nei cosiddetti ‘no match day’. Lo stadio deve diventare il fulcro di tutte le attività del club”.
E poi?
“E poi, oltre allo stadio, possibilmente di proprietà, gli obiettivi sono: l’internazionalizzazione del brand, per sfruttare i ricavi commerciali, andando oltre alla cornice dei tifosi e del pubblico locale, l’aumento dei ricavi da tv e digitale, lo sviluppo dei centri sportivi e dei settori giovanili, un calciomercato che consenta di realizzare le giuste plusvalenze e la creazione di una media house che possa eccellere in termini di marketing e di promozione, anche grazie all’utilizzo delle nuove tecnologie e dei social network”.
Tutto questo è possibile in Italia?
“In Italia tutto questo è possibile, ma molto rallentato. La pratica è molto più complessa rispetto alla teoria: e questo perché le politiche infrastrutturali sono deficitarie, perché c’è troppa burocrazia, perché ci sono ancora troppi freni. Basta guardare alle peripezie che stanno attraversando club come la Fiorentina e soprattutto la Roma per costruire uno stadio di proprietà. I proprietari stranieri hanno bisogno di più tempo, per entrare nelle logiche italiane e, alla fine, anche di qualche investimento in più. Non a caso, si affidano a figure chiave anche dalle precedenti gestioni, com’è il caso del Genoa con Enrico Preziosi”.
Ma quindi il calcio ‘romantico’ ha chiuso per sempre?
“Ci sono ancora delle belle storie. Come l’Atalanta, che è gestita in maniera encomiabile dalla famiglia Percassi: hanno un florido settore giovanile, un bel centro sportivo, lo stadio di proprietà, giocatori che vengono costantemente valorizzati. Però, per un singolo proprietario, o per una famiglia, è diventato complicato mantenere un club in Serie A. Non parliamo della Serie B o della Serie C: qui il sacrificio è ancora maggiore”.