di ALBERTO BRUZZONE
“Bisogna rispettare il virus e rispettare gli altri. Bisogna imparare a conviverci, ma bisogna farlo veramente e non solo a parole. Bisogna farlo molto meglio rispetto a quanto è stato fatto sinora. Credo che tutti debbano abbassare i toni: devono prevalere cautela e ottimismo, un atteggiamento più simile a quello di tanti altri paesi europei. Siamo stati i primi ad affrontare l’emergenza sanitaria in Europa, secondo me siamo stati anche i più bravi a gestire l’epidemia, ma le polemiche fanno male e i continui ‘al lupo al lupo’ fanno anche peggio”.
Il richiamo arriva da Matteo Bassetti, il direttore della Clinica di Malattie Infettive dell’Ospedale San Martino di Genova che, specie negli ultimi mesi, è diventato uno dei personaggi più ricercati, più intervistati, più interpellati dell’intero circuito massmediatico: lui, sempre gentile e disponibile con chiunque, non si è mai sottratto, ha sempre detto come la pensava, non ha mai mancato né di franchezza né di onestà intellettuale.
Ora, siamo in una fase del Covid-19 molto delicata, con un Paese che si prepara alla ripartenza dopo le ferie estive e che guarda con grande attesa e pure un filo di motivata preoccupazione all’appuntamento nodale delle prossime settimane: il ritorno della didattica in classe, con l’inizio ufficiale dell’anno scolastico.
Professore, mascherina sì o mascherina no in classe?
“Anzitutto, mi preme dire che non si può pensare neanche per un solo minuto che la scuola non possa ripartire con la didattica in presenza. Questo scenario sarebbe un fallimento totale. Non dimentichiamo che la scuola in presenza è ferma dalla fine di febbraio: questo significa che ci sono stati moltissimi mesi per fronteggiare la situazione e per organizzarsi. Sulle mascherine in classe ho parlato sia da padre che da medico: non posso pensare all’idea che un bambino di sei anni indossi la mascherina in classe per sei/sette ore, anche perché questa situazione durerebbe un solo giorno. Mi spiego meglio: ok alle mascherine sui bus, all’entrata e all’uscita da scuola, durante la ricreazione, nei bagni e negli spazi comuni. Ma quando si sta al proprio banco, non è necessaria, se è stato attuato a monte un buon distanziamento. Occorre comportarsi, insomma, come quando si va al ristorante: quando si è seduti e si mangia, la mascherina si può togliere. Inoltre, la mascherina nei bambini più piccoli può portare dei problemi respiratori: questo non lo dice Bassetti, ma lo dice un documento ufficiale dell’Organizzazione Mondiale della Sanità”.
Quindi più distanziamento, ovvero più organizzazione degli spazi, e meno mascherine?
“Lo ripeto: se si sta seduti al proprio banco e i banchi sono opportunamente distanziati, e le classi sono state opportunamente organizzate, la mascherina non serve. Io la uso da otto mesi per dodici ore al giorno, non sono certo un nemico della mascherina. Ma i bambini di sei anni non sono come quelli di quindici o come gli adulti che hanno a che fare, con il loro lavoro, con altre persone. Il focus è creare delle classi dove si rispettano le regole di distanziamento. Io credo che le risorse si dovevano investire su modifiche strutturali delle aule, laddove necessarie, invece di comprare banchi e sedie con le rotelle, che viene voglia di usare come autoscontri”.
Sulla misurazione della febbre, invece, che posizione ha?
“Sicuramente la prima misurazione la devono fare i genitori. I genitori sono i primi ad accorgersi se i propri figli hanno la febbre. In quel caso, non dovrebbero mai mandarli a scuola, e questo vale anche in tempi in cui non c’era il Covid. Poi, ritengo che la misurazione della febbre è bene che si faccia anche a scuola. Ma qui si pone il problema: chi se ne deve occupare? Chi misura la temperatura a scuola? Io penso che si dovrebbe investire di più, molto di più, a livello di ‘sistema Paese’, sul tema della sanità scolastica: penso a un referente sanitario, un medico operativo, magari se non proprio in ogni istituto, almeno ogni tre/quattro istituti. Questa è una figura centrale, perché in caso di criticità può subito visitare un bambino, capire quali sintomi ha, indirizzarlo per fare un tampone, gestire la situazione rispetto alla classe. Andiamo verso una stagione in cui sarà normale avere qualche linea di febbre. Se tutte le persone con la febbre verranno a intasare gli ospedali, avremo una situazione simile a quella della scorsa primavera. Invece, bisogna lavorare di più sulla prevenzione e sulla distinzione dei singoli casi”.
Per questo, lei ha raccomandato di sottoporsi alla vaccinazione ‘tradizionale’ per l’influenza stagionale?
“Se ci si vaccina per l’influenza stagionale, questo aiuta i medici, in quanto consente una diagnosi differenziale. Ovvero, consente di individuare meglio i casi di Covid da quelli che non lo sono. Anche il vaccino dello pneumococco, che figura tra quelli facoltativi, andrebbe fatto, proprio per favorire l’individuazione più veloce dei casi reali di Coronavirus. Ma mi rendo perfettamente conto che, sul tema dei vaccini, si tocca un discorso che non è solamente scientifico, ma diventa politico”.
Che cosa prevede, invece, in merito al vaccino specifico contro il Covid-19?
“Il problema non è averlo, perché penso che stiamo andando nella giusta direzione e posso auspicare che la sperimentazione si concluderà entro l’inizio del prossimo anno. Il problema vero sarà poi produrlo in maniera grandissima. Non stiamo parlando di centinaia di migliaia di dosi, ma di milioni di dosi, se non di miliardi. E per questo ci vorrà il suo tempo. Io spero nella primavera del 2021, ma è probabile che si vada anche un po’ più in là. Ci saranno categorie a cui verrà data la precedenza, poi ci saranno tutti gli altri”.
Lei parla di ottimismo, ma il numero dei contagi è sempre in salita. Come si fa a restare ottimisti?
“Bisogna guardare le cose da un altro punto di vista. Questi continui ‘al lupo al lupo’ fanno malissimo, come le continue contrapposizioni tra negazionisti e catastrofisti. Io ritengo che ci siano più contagi perché il sistema di individuazione è nettamente migliorato: si fanno molti più tamponi. Guardi che il fatto che ci siano più contagi, ma meno morti e meno persone ricoverate negli ospedali, è un fatto positivo: vuol dire che i contagi sono individuati e poi tracciati, che l’attività di prevenzione funziona, che il sistema sta reggendo, che siamo diventati più bravi rispetto al virus”.
E il virus? È diventato anche lui più ‘bravo’?
“Continuo a ribadire il mio concetto. In tanti hanno cambiato idea mille volte, io sono sempre rimasto sulla stessa strada, come tanti mi hanno fatto notare. Il Coronavirus di oggi è molto, ma molto diverso rispetto al Coronavirus di marzo e aprile: non solo ci sono meno malati, ma sono quasi tutti molto meno gravi. Lo vedo stando tutti i giorni in ospedale: non ho più visto casi della medesima gravità. E questo dipende da una serie di fattori concatenati fra loro, non da uno soltanto: il virus che ha perso carica virale, noi che siamo diventati più bravi a intercettarlo per tempo, noi che siamo migliorati nel somministrare le cure più adatte. Il Coronavirus morde meno: chi lo nega, nega l’evidenza. Oggi in tanti vengono nel mio ‘caruggio’: io non mi sono mai spostato di un centimetro, rispetto a questa posizione”.
Che cosa vuol dire che siete migliorati nelle cure?
“Abbiamo capito meglio che cosa dobbiamo fare, quando ci si presenta un caso di Covid. Quando intubare e quando non intubare, quando basta il casco a ossigeno, quanto ossigeno mettere. A quali pazienti somministrare il cortisone, a quali somministrare l’antivirale, con quale regolarità dare l’eparina. Abbiamo trovato, come dicono gli inglesi, il fine tuning, ovvero la giusta ricezione: non si sentono più interferenze, ma c’è un bel suono stereo. Oltre a tutto questo, va aggiunta l’intuizione medica: quella o ce l’hai o non ce l’hai. Personalmente, se siamo diventati un centro di eccellenza a livello nazionale, lo devo a tutto lo straordinario staff che lavora con me”.
Ma, da medico, che cosa significa curare il Covid?
“Guardi, dico la verità. Oggi curare il Covid è diventato piuttosto semplice. Ne hai visto uno, ne hai visti cento, perché l’infezione è sempre uguale. Si seguono i protocolli: possono sì variare da caso a caso, ma sono sempre molto precisi. Ci sono infezioni molto più complesse, per le quali mettiamo a punto cocktails di farmaci. Ci sono, voglio dire, malattie infettive molto ma molto più impegnative, dal punto di vista della medicina. Ormai a San Martino siamo perfettamente rodati su come gestire i singoli casi di Covid: il problema è se diventano troppi tutti insieme, come successo la scorsa primavera”.
Come vive un medico infettivologo, e quindi non propriamente una star, l’esposizione mediatica?
“A volte mi piace, altre volte un po’ meno. Ho attirato molte simpatie, ma anche molte antipatie. Ho ricevuto attacchi pure piuttosto pesanti, ma quelli che mi hanno fatto più male sono stati quelli rivolti alla mia famiglia. Sono stato associato a una precisa parte politica, il che ha comportato una campagna ‘contro’ da parte di alcuni media e di un consigliere regionale che continua ad attaccarmi su cose che, secondo me, sono state fatte invece in maniera giusta, come il bonus surgelati. Io posso dire, e questo lo dico con orgoglio, che all’interno del mio staff remiamo tutti dalla stessa parte: non c’è stata una sola persona che si sia tirata indietro, che abbia fatto delle polemiche, che abbia trovato qualcosa da ridire. Anche per questo, una delle prossime sere, usciremo tutti insieme a cena, sulle alture di Genova. È il mio modo di dire grazie a tutte le persone che sono state al mio fianco. Quanto alla sovraesposizione, è chiaro che produce anche effetti collaterali. E, purtroppo, c’è tanta ignoranza che dilaga”.
Ma quante interviste avrà fatto, in questi mesi?
“Penso di esser stato ad almeno trecento trasmissioni televisive. Tutto tempo che ho sottratto alla mia famiglia. Non ho mai sottratto tempo, mai, alla mia attività ospedaliera. Questa è un’altra accusa che mi fa male, quando dicono: Bassetti stai meno in tv e di più in corsia. In corsia non sono mai mancato: chi mi accusa di questo sono persone brutte e meschine. Comunque, non è mai successo, credo nella storia della medicina, che degli infettivologi siano diventati così popolari”.
Quindi spera di tornare al suo ‘tran-tran’ quanto prima?
“Assolutamente sì: ospedale e insegnamento. Uno degli aspetti che più mi mancano è esattamente questo: poter tornare a far lezione in presenza agli studenti, sia in aula che in corsia. L’aspetto didattico è fondamentale. È vero che anche nei mesi critici si è lavorato di testa, nello stabilire le terapie, ma quello che ti trasmettono i ragazzi è completamente diverso”.
Il 3 settembre sarà al Comunale di Chiavari a giocare a calcio: una partita benefica il cui incasso andrà a sostegno delle attività del Cam, il Comitato Assistenza Malati del Tigullio. Bassetti velista, Bassetti calciatore, stanno venendo fuori diversi aspetti extra-medici…
“Ho fatto l’arbitro di calcio per vent’anni. Ma in realtà non ho mai smesso nemmeno di giocare, neppure quando ero a Udine. La mia partitella di calcetto ogni mercoledì sera è un rito. Abbiamo smesso durante il lockdown, ora abbiamo ripreso con i miei amici. Da ragazzo giocavo come terzino di fascia: sono uno che ha sempre corso molto, mi piaceva crossare la palla e mandare in gol gli altri. Ora preferisco giocare da centravanti, in un certo senso è più facile. Mi sento un po’… un Cabrini moderno”.