Lo sport può essere uno straordinario veicolo di integrazione. In una calda estate di barconi e di urla senza senso (fino alla richiesta assurda di abrogare la legge Mancino), la composizione della Nazionale italiana di atletica agli Europei di Berlino e i suoi importanti risultati sono l’esempio più bello dell’Italia multietnica di domani. E soprattutto sono l’esempio di ciò che si deve fare, senza paura, per promuovere nei nuovi italiani impegno, dedizione, attaccamento alla maglia azzurra, al tricolore e all’inno di Mameli, in una parola: identificazione.
L’esempio più recente ed eclatante sono le ragazze della staffetta 4×400, che dopo il successo a giugno ai giochi del Mediterraneo di Tarragona si sono piazzate quinte nella finale berlinese.
Chi sono queste ragazze? Maria Benedicta e Ayonide hanno genitori nigeriani, Raphaela sudanesi, Libania è nata a Cuba. Ma tutta la nazionale ha una fortissima presenza di nuovi italiani (il 31.5%, 28 atleti su 89). Giovani nati in Italia o arrivati molto presto a seguito dei genitori, o per matrimonio. Molti i ragazzi di origine africana, ma non solo: mozambicani, somali, egiziani, tunisini, marocchini, eritrei, ghanesi, ivoriani, ma anche dominicani, ucraini, un russo e uno statunitense.
L’esempio di integrazione è importante: bisogna spingere i figli dei nuovi italiani a fare sport. E ciò non solo per l’evidenza educativa, ma anche e soprattutto perché spesso, grazie alle loro doti fisiche, essi eccellono, e non c’è niente di più forte del successo e dell’ammirazione che esso genera per promuovere stima ed autostima e quindi integrazione.
Questo processo, che si è già manifestato in molti sport e in molte altre importanti nazioni europee (si pensi alla Francia, alla Spagna, al Belgio, all’Olanda e alla Germania) si sta affermando anche in Italia, Paese di immigrazione più recente rispetto agli altri.
Lo Stato italiano deve usare il Coni e le federazioni come strumenti privilegiati di questo processo di integrazione, dotandoli di mezzi specificatamente dedicati allo scopo, aiutandoli ad entrare nelle periferie più difficili delle città con la costruzione di impianti e presidi sportivi, promuovendo attraverso il tricolore delle nazionali e le maglie azzurre i valori fondanti ed identitari della nuova Italia multietnica.
Non è impossibile, si può e si deve fare.
Tra gli esempi migliori di perfetta integrazione di comunità straniera in Italia vi è certamente quella che riguarda la comunità albanese, che all’inizio degli anni ’90 è stata la prima a raggiungere il nostro patrio suolo.
Ricordate il 7 marzo 1991 quando l’Italia scoprì di essere la terra promessa di migliaia di albanesi?
Quel giorno arrivarono al porto di Brindisi, a bordo di navi mercantili e di imbarcazioni di ogni tipo, 27000 migranti. Fuggivano dalla crisi economica e dalla dittatura comunista in Albania. Qualche mese dopo ne arrivarono altri 20000. Una vera, drammatica invasione.
La situazione che si creò fu difficilissima e mise a dura prova le autorità nazionali e la città di Brindisi, impreparate ad un esodo di queste dimensioni, che continuò, sia pure controllato, nei mesi e negli anni successivi. Vi furono altre ondate migratorie nel 1997 e nel 2000. Oggi gli albanesi residenti in Italia sono circa 440.000, e a questi si aggiungono le naturalizzazioni che tra il 2006 e il 2017 sono state 189.000.
Il 18 novembre 2014 si disputò allo stadio Luigi Ferraris di Genova una partita di calcio Italia-Albania con lo scopo di raccogliere fondi per le vittime dell’alluvione che aveva colpito qualche tempo prima, per l’ennesima volta, il capoluogo ligure.
Spettatori circa trentamila, di cui venticinquemila albanesi e solo cinquemila italiani. All’inizio gli inni, prima quello della squadra ospite: il Ferraris si colorò di migliaia di bandiere rosse con l’aquila nera bifronte e si riempì del canto dell’inno nazionale albanese. Ma la sorpresa straordinaria, da pelle d’oca, arrivò al momento dell’inno di Mameli. Il pubblico albanese, o di origine albanese, riposta la sua bandiera, estrasse il tricolore e cantò a squarciagola il nostro inno. I cinquemila italiani restarono ammutoliti, alcuni tra loro piansero commossi.
Pochi mezzi di comunicazione raccontarono bene quella sera straordinaria. Oggi la comunità albanese è un pezzo essenziale dell’Italia moderna, non solo nel settore edile in cui eccelle, ma anche nelle professioni (medici e ingegneri) e nelle attività commerciali.
Spesso i loro figli, nelle nostre scuole, sono i primi della classe.