di DANILO SANGUINETI
Essere una Living Legend e non tirarsela. Ario Costa è veramente una ‘Rara Avis’ nel panorama degli sportivi di fama. Nonostante carriera da brividi, due sentieri costellati di successi, prima da atleta, poi da dirigente, è rimasto il bravo ragazzo di oratorio che cinquant’anni fa si divertiva a centrare (a ripetizione) il canestro (un cerchietto di ferro) attaccato al muro della canonica.
La sua scheda dice già tanto. Nasce a Cogorno, muove i primi passi nell’Aurora Chiavari, alto 2,11 metri, viene impostato come centro. Talento precoce, a soli 15 anni passa al Basket Brescia. A 24 anni il salto nella Scavolini Pesaro, squadra che mette in discussione negli anni Ottanta il predominio milanese-lombardo nella pallacanestro italiana. Conquista due scudetti (1988 e 1990) e due Coppa Italia, dopo 21 campionati di serie A (oltre 650 partite) e 12 anni in azzurro (198 presenze, un oro, un argento e un bronzo agli Europei), nel 1997 decide di passare dal parquet alla scrivania.
L’attività agonistica non gli ha impedito di studiare e di diventare uno che si fa ascoltare anche nei consigli di amministrazione. Comincia come Team Manager, poi General manager a Pesaro che diventa la sua seconda casa, sino al divorzio nel 2003, quando si allenta il connubio sin lì trionfale tra la proprietà della famiglia Scavolini e la società marchigiana.
Va a Fabriano, nel 2006 è ingaggiato dalla campana Scafati, ma per dissidi con il presidente rompe prematuramente il contratto. Direttore sportivo per la Lottomatica Roma, general manager della Eldo Napoli, poi del Basket Cremona che si fonde con la Soresina per ritrovare la massima serie.
Nel 2010 torna al Basket Brescia, due anni da general manager lì, un anno alla Fulgor Forlì come direttore tecnico e team manager. Nel 2013 viene chiamato a Pesaro per trovare una soluzione alla crisi nella quale la società, la ‘sua’ società, è sprofondata. La serie A è a rischio, la Scavolini ha ridotto l’impegno economico, il crollo totale è a un passo. Riesce con un budget minimo a difendere la categoria da allora sino a oggi. Ma non tutto è riconducibile a numeri, titoli e risultati. C’è anche il fattore umano: Costa gode di una stima illimitata nell’ambiente, gli avversari lo rispettano, i suoi giocatori, tecnici e tifosi lo adorano. Serio, capace e assolutamente schivo. Quanto accaduto poche settimane fa chiude il cerchio e mette un sigillo sul certificato di campione fuori del comune.
Gli viene recentemente conferito un privilegio che spetta a pochissimi: il ritiro del numero di maglia che ha indossato per 431 partite e onorato in dodici anni di militanza come giocatore. L’ex Scavolini oggi Vuelle (Victoria Libertas) Pesaro prima di una partita di campionato, la sentitissima sfida con la Virtus Bologna, nel Palasport di casa gremito, oltre 5000 presenti, gli ha consegnato in via definitiva la canotta numero 14. Nessuno potrà più indossarla.
Un onore, una sorpresa: “Sebbene come presidente avrei dovuto ‘sospettare’ qualcosa, sono riusciti a tenermi tutto nascosto sino al momento di convocarmi sul parquet e comunicare la decisione presa all’unanimità da dirigenti e proprietà. Cosa dire, mi hanno commosso”. Stiamo parlando di una cerimonia svoltasi in una delle cattedrali del basket italiano, di un riconoscimento concesso a pochissimi, i nomi che sono nella storia di questo sport (a Pesaro per esempio solo a Walter Magnifico), eppure Ario Costa lo commenta in maniera asciutta, come se fosse una cosa normalissima quella di aver raggiunto il top partendo dalla periferia che più periferia non si potrebbe, aver mantenuto uno standard elevato per decenni, aver mostrato di saper vincere anche a bordo campo e di saper fare centro da dietro una scrivania come quand’era sul campo.
Nemmeno la consapevolezza che se una carriera simile fosse trasportabile nel calcio (ad oggi viene in mente solo Boniperti) godrebbe di una fama cento volte maggiore. “Io non sono di quelli che alimentano la faida tra il calcio ricco e gli altri sport ‘cenerentola’. Sarebbe mischiare pietanze diversissime. Tra l’altro io seguo e mi appassiono delle vicende calcistiche, sono un super tifoso del Genoa, stimo i campioni di questo sport, persino i doriani Vialli e Mancini. Ma amo la pallacanestro, è la mia vita e non la cambierei con nessun’altra disciplina”.
La festa gli ha fatto piacere, ma, in questo tradendo la sua origine, un ligure sospeso tra montagna e scoglio, che bada al sodo, un attimo dopo era concentrato sulla missione di sempre: tenere Pesaro in serie A. “Abbiamo avuto un paio di ottimi risultati, sono ottimista anche se so che ci sarà da soffrire sino alla fine. L’importante è sentire l’affetto della nostra gente. Ogni partita casalinga facciamo il tutto esaurito. Con il popolo biancorosso alle spalle non possiamo fallire”.
Un altro piccolo miracolo è alle viste. “Qui il basket è quasi una religione, il calcio viene molto dopo. Per questo forse non nutro alcun tipo di invidia verso i ‘fortunati’ che giocano la palla con i piedi”.
Per Ario lo stato di salute del basket tricolore è buono. “Il movimento nel settore maschile ha superato in maniera soddisfacente le bufere degli ultimi anni. Nel femminile siamo più indietro, ma è un ritardo che è endemico, c’è anche nella mecca della pallacanestro, gli Usa”. E la terra natia non gli manca. “Per ora ho tanto da fare a Pesaro. Certo i legami con Cogorno e il Tigullio ci sono e sono forti, i miei fratelli, gli amici, ne ho tantissimi dalle vostre parti. Diciamo che potrei pensarci quando ritireranno anche la mia giacca da dirigente”. Allora pare che si dovrà attendere parecchio…