Nascere principe e doversi adattare a vivere in una repubblica, spesso caciarona, spesso anarchica non è affatto semplice: Andrea Dagnino, giocatore e ora allenatore tra i più conosciuti nel Levante, venne soprannominato il Principe fin da quando mosse i primi passi nelle giovanili entelliane.
Il ragazzino allevato da Gianni Comini e gli altri maestri che ancora oggi insegnano calcio nella Academy biancoceleste si dimostrò immediatamente di qualità tecniche e sapienza tattica superiori. Anche troppo bravo per la media dei suoi coetanei.
Serio, troppo serio forse, lo si diceva destinato a grandissime cose. Arriva a giocare nei professionisti ma un paio di infortuni nei momenti e passaggi chiave della carriera lo spingono di nuovo tra i dilettanti. Dove tra Chiavari e Lavagna regala comunque scampoli di grande calcio. Ogni squadra che punti al vertice in serie D o in Eccellenza lo cerca.
Classe 1970, passati i 30 anni decide di appendere le scarpe al chiodo. Ha già preso il patentino da allenatore, segue corsi, si aggiorna, nel tempo consegue anche le competenze e le licenze per allenare tra i professionisti. Sembra di nuovo lanciato, da Cicagna a Lavagna, dalle giovanili alla serie D, fa molto bene nella lunga esperienza in bianconero (sette stagioni), uno stop per studiare, poi va al Sestri Levante, prendendo il posto di Luca Salvalaggio e salva i corsari.
Si pensa che possa cimentarsi nelle serie professionistiche invece una nuova lunga pausa – resta fermo per quasi due anni – e poi a fine febbraio torna alla ribalta come allenatore del RivaSamba in Promozione. Perchè? “Perché la proposta fatta mi ha intrigato” spiega con la usuale concisione.
A due terzi di stagione riprende da una categoria che aveva abbandonato oltre un decennio fa (fece cose egregie alla guida del defunto Cicagna), sostituisce in panchina un vecchio avversario della serie D, quel Del Nero che era stato ingaggiato dai calafati con l’unico compito di vincere il girone A della categoria e riportarli in Eccellenza. Era stata allestita una formazione, sulla carta, più che adatta alla bisogna.
Il campo ha detto cose diverse: dopo 22 giornate il Riva era staccato di 4 punti dalla sorpresa assoluta, il Real Fieschi e di 2 dall’altra corazzata, l’Athletic Club allenata da uno dei maestri di Dagnino, Alberto Mariani. La prima uscita sulla panchina arancionera all’Andersen è andata bene: vittoria sul Magra Azzurri e distacco dalla vetta ridotto di una lunghezza perché il Real Fieschi ha perso. “Vero, ma l’Athletic ha vinto e quindi restiamo terzi con tre punti di svantaggio dal primo posto, l’unico che dia accesso alla promozione diretta”.
Il RivaSamba potrebbe giocarsi un’ulteriore chance nei play off: “Sinceramente non so se augurarlo perché andremmo ad affrontare una serie di partite dall’esito incerto che ci farebbero ritardare di molto la programmazione per la prossima stagione. Invece io ho accettato l’incarico solo perché abbiamo fatto con la società un programma a lunga scadenza. Questo mi interessava, impostare un lavoro di ampio respiro, con l’intento di costruire qualcosa di solido, puntare sul vivaio, crescere piano ma costantemente. Perciò tenteremo nelle sette giornate che restano la rimonta, ma se non riusciremo nessuna si strapperà i capelli. La vera sfida inizierà in estate quando potrò scegliere giocatori, collaboratori e fare un certo tipo di preparazione. Adesso è come se fossi salito su una macchina a noleggio: puoi essere un manico del volante ma se non conosci i limiti del mezzo che ti hanno messo a disposizione, si rischia di uscire di strada alla prima curva”.
Dagnino è fatto così, ama uscire dagli schemi usuali. “Da calciatore e da allenatore ho sempre seguito le mie idee, a costo anche di pagare il prezzo per gli sbagli miei e degli altri. In ogni caso sono sereno, ho fatto quanto mi ero prefissato: come mister sono partito dalla gavetta, allenando i pulcini e ho scalato i gradini senza spinte, anzi facendo tutte le tappe: dai giovanissimi alla Juniores, alla prima squadra, dalla Promozione alla serie D”.
Aveva detto che gli sarebbe piaciuto cimentarsi con un grosso club nel professionismo. È un sogno destinato a restare nel cassetto? “Non l’ho abbandonato ma a quasi 50 anni tocca anche essere realisti sino alla spietatezza, soprattutto con se stessi. È tardi per sfondare, posso solo restare fedele alle mie idee. Soprattutto ho fatto una scelta di vita: a un certo punto avrei dovuto andarmene dalla Liguria, lontano dalla famiglia. Restare con la mia famiglia, veder crescere le mie due figlie non la considero una sconfitta, anzi”.
Uno che avuto il coraggio di guardarsi allo specchio e di non raccontarsi storie ma di accettarsi così come è. Nel calcio, nello sport, diciamo pure nell’Italia odierna, una mosca bianca. Chapeau.
(d.s.)