di ENRICO ROVEGNO *
È andata così: in attesa di un nuovo sfolgorante romanzo di Franzen (all’altezza de Le correzioni, per intenderci), nella speranza che Foer si confermi il narratore sorprendente che ci aveva regalato Ogni cosa è illuminata (ma anche Eccomi, quasi quindici anni dopo), non credendo più De Lillo capace di una prova come Underworld, non aspettando più niente per cause di forza maggiore da Roth, ogni tanto vado a caccia di qualche opera che continui a tenere alta la considerazione che ho della letteratura degli Stati Uniti fin da quando da ragazzo scoprii l’epopea di Moby Dick e di Benito Cereno.
Questa volta andando a caccia mi sono imbattuto in una strana preda, un libro non nuovo, che mi era sfuggito anche perché il nome dell’autrice – Marisha Pessl – non mi diceva nulla: questo Teoria e pratica di ogni cosa(titolo originale Special Topics in Calamity Physics) è uscito in Italia nel 2006, ma credo valga la pena di leggerlo.
Letteralmente, perché un po’ di pena è pur necessaria per il lettore che accetti di navigare attraverso le quasi settecento pagine di un romanzo che è, insieme, una sorta di thriller e un romanzo di formazione. Ma anche, forse soprattutto, un prodigioso contenitore di digressioni, strumento narrativo di allontanamento (almeno apparente) dal tema del discorso che la Pessl utilizza con grande sapienza (anche se forse con eccessiva frequenza); e di frasi incidentali, che (almeno in apparenza) scavano nella profondità del soggetto. Ne fornisco qui un solo esempio tra mille, la descrizione di una delle amiche (o presunte tali) di Blue, la protagonista.
“Jade era la bellezza spaventosa (si veda “Aquila Rapace”, Magnifici uccelli predatori, George, 1993). Piombava in classe, e le femmine si disperdevano come tamie e scoiattoli (i maschi, altrettanto terrorizzati, si davano per morti). Era brutalmente bionda (“Slavata all’inverosimile,” sentii rimarcare da Beth Price durante la lezione di inglese), uno e settantatré (“Uno stecchino”), imperversava nei corridoi in gonna corta, i libri in una borsa di pelle nera (“Mi sa che è di Donna Karan”) e, quello che a me sembrava un velo triste e severo sul suo volto, per quasi tutti era spocchia. A causa dei suoi modi da roccaforte – che come qualsiasi castello ben costruito rendevano problematico l’accesso – le femmine consideravano l’esistenza di Jade non solo una minaccia ma anche un’ingiustizia bella e buona […] Jade era la massima espressione di un concetto che in pochi riuscivano ad accettare: ossia che qualcuno avesse davvero vinto l’edizione per fate e principi azzurri del Trivial Pursuit mentre tu, dovevi fartene una ragione, potevi partecipare solo al gioco per gente qualunque e conquistare al massimo tre spicchi di torta”.
Il libro è poi letteralmente infarcito di richiami ad altri libri, come una serra dove fioriscono a ogni passo citazioni, reali o inventate, di autori famosissimi o del tutto sconosciuti. Per non dire che ogni capitolo è intitolato a un classico della letteratura, da Otello a Cime tempestose, da Madame Bovary a Moby Dick…
Un thriller, si diceva: un padre docente universitario (visiting professor continuamente in cerca di una nuova università, autore di alcuni saggi acclamati, titolare di una cattedra di Scienze politiche – o Relazioni internazionali, o Teoria delle Rivoluzioni) e sua figlia Blue, rimasti soli dopo la tragica morte in un incidente stradale di una moglie e madre collezionista di farfalle – a una delle quali (la Cassius Blue) la protagonista deve il suo nome – si trovano a fare i conti con la morte, ufficialmente un suicidio, di una donna piena di fascino e di misteri, Hannah Schneider, che nel liceo di Blue teneva un corso di Introduzione al Cinema e aveva creato intorno a sé un gruppo di studenti e amici attirati dalla sua luce misteriosa.
O meglio, i conti li fa Blue, che ha trovato il cadavere, ma credendo di conoscere la vittima meglio di tanti altri, compreso il padre, ha più di un dubbio: non suicidio, ma omicidio. E dietro la vicenda ecco spuntare l’ombra di una cospirazione internazionale da parte di un misteriosissimo gruppo terroristico, i Night-watchmen, o Guardiani notturni: il colpo di scena finale è preparato magistralmente e sarà di grande effetto.
Un romanzo di formazione: Blue ha un’intelligenza e una cultura, non solo letteraria, superiori a quelle di tutti i suoi compagni, e forma col padre una strana coppia (apparentemente) simbiotica, ma ha anche tutte le paure e le incertezze di una quindicenne: la storia in cui si trova coinvolta la costringerà alla fine a indagare da sola e a scoprire una verità più ampia e sconvolgente di quella che cercava.
Blue è anche l’io narrante, avendo deciso di raccontare la storia della sua infanzia o “più esattamente, dell’anno in cui essa si scucì come un golfino impigliato in uno spuntone”: infatti dei quindici anni precedenti sappiamo soltanto che con il padre ha toccato “trentanove città in trentatré stati, senza contare Oxford”, frequentando “ventiquattro scuole tra elementari, medie e superiori”. E il padre, nel frattempo, “attraeva le donne allo stesso modo in cui certi pantaloni di lana non riescono a evitare di attrarre la polvere”: le sue storie, annota la figlia, “duravano un periodo compreso tra l’incubazione delle uova di ornitorinco (19-21 giorni) e la gravidanza dello scoiattolo (24-45 giorni)”.
Tuttavia, la vita di Blue è ben lontana dall’essere avventurosa: “La mia vita nomade con papà poteva anche apparire, dall’esterno, avventurosa e trasgressiva, ma la realtà era ben diversa. Un oggetto che si sposta lungo un’interstatale americana obbedisce a una spiacevole (e completamente misconosciuta) legge di moto, tradotta nella netta sensazione che, pur avanzando a tutta velocità, in effetti non accada nulla”.
E questo professore girovago, quest’uomo che affascina tante donne, e pure sembra così preso dai suoi compiti di genitore di una adolescente, è però di fatto un egocentrico e un rapace assoluto: “Papà era un uomo che, probabilmente a causa della sua infanzia difficile, non aveva mai tentennamenti quando si trattava di usare il verbo prendere. Papà prendeva sempre una posizione, una decisione, la situazione in pugno, la palla al balzo, il toro per le corna; qualcuno di petto, in castagna o per il naso. E poi prendeva piede, l’abbrivio, il largo, il volo; la città d’assalto, la cosa in esame, la testa della corsa. Se la prendeva a cuore. E quando si trattava di osservare le cose, papà era una specie di microscopio composto, uno che guardava la vita attraverso la lente di un oculare regolabile e perciò si aspettava che tutte le cose fossero a fuoco. Aveva tolleranza zero per l’Oscuro, l’Indistinto, il Nebuloso e l’impiastricciato”.
Per raggiungere la vera chiarezza Blue dovrà imparare a passare dalla teoria “di ogni cosa” alla pratica di quella singolare storia davvero incredibile in cui è rimasta invischiata, dai libri alle persone. “La viscida mano del destino” la incalza, la costringe a uscire dal suo guscio di citazioni e a fare i conti con una realtà che lei non si sarebbe mai aspettata. E che non si aspettava – pregio non piccolo del romanzo – nemmeno il lettore.
Marisha Pessl (1977) ha esordito nel 2006 con questo romanzo. In seguito sono usciti anche in Italia Notte americana (2015) e Neverworld (2019), primo romanzo per ragazzi (youngadult).
(* Vice presidente della Società Economica e assessore alla Biblioteca)