di MARCO MAZARINO DE PETRO *
Parlando di Moro si tende a ridurre il discorso all’episodio del suo rapimento e della sua uccisione da parte delle Brigate Rosse. La vicenda, in realtà, è molto più complessa. Il mio contributo è soprattutto una testimonianza, avendo io avuto la sorte di viverla da vicino. Ero infatti un giovane parlamentare proprio in quella legislatura, in quel drammatico momento storico. Ed è vivendo tale vicenda nella sua complessità che mi sono reso conto della statura politica e della statura umana di Aldo Moro.
Facciamo un minimo di contesto: siamo negli anni tra il ’76 e il ’78, l’Italia vive un momento storico drammatico, percorsa dallo stragismo delle Brigate Rosse, con la psicosi di derive autoritarie dopo il colpo di stato di Pinochet in Cile, e con una forte crisi economica.
Le elezioni politiche del 1976 avevano riconfermato la DC come primo partito con il 38,7%, ma il PCI aveva ottenuto il 34,4%, mentre i partiti laici e lo stesso PSI avevano subito un forte arresto elettorale. Il centrosinistra non era più proponibile e l’on. Moro, che era stato l’artefice proprio del primo centrosinistra in Italia nel 1963, comprende che, davanti alle sfide di quel momento storico, il paese ha bisogno di una risposta la più possibile unitaria delle forze politiche. Lavora dunque alla costruzione di un governo che veda coinvolti il maggior numero di partiti presenti in parlamento, almeno attraverso un voto di astensione. Su questa linea incontra l’apertura anche del PCI di Berlinguer. Nasce così, il 30 luglio del 1976, il “governo della non sfiducia”, un monocolore democristiano guidato dall’on. Andreotti, sostenuto dal voto della DC e dall’astensione del PCI, del PSI e dei partiti laici.
La formula tuttavia, alla prova dei problemi e dei fatti del tempo, si mostra debole, e all’inizio del 1978 si apre la crisi. Moro comprende la necessità di un coinvolgimento maggiore del PCI di Berlinguer che, proprio in quella fase storica, sta tentando di tagliare il cordone ombelicale, politico ed economico, che lo legava all’URSS e di agganciarsi all’eurocomunismo. In una dichiarazione fatta su “Rinascita”, la rivista ufficiale del partito, Berlinguer aveva addirittura affermato di sentirsi “più sicuro” dentro l’Alleanza Atlantica che non dentro la “cortina di ferro”. Nasce così il 16 marzo del 1978 il “governo di solidarietà nazionale”, un monocolore democristiano guidato ancora da Andreotti, ma sostenuto dal voto positivo anche del Partito Comunista, pur senza entrare nell’esecutivo.
Prima della nascita di quel governo accadono tuttavia due fatti straordinari.
Il primo: il 28 febbraio del ’78 si riunisce l’assemblea dei gruppi parlamentari della Camera e del Senato della DC: vi era una profonda spaccatura tra favorevoli e contrari all’ingresso del PCI nella maggioranza. Fu un’assemblea drammatica nella quale intervenni anch’io e di cui soprattutto non posso dimenticare la conclusione del presidente Moro, che alla fine disse: se dovessimo sbagliare, meglio sbagliare insieme. Votai per la sua linea e questo mi valse alle elezioni politiche del ’79 l’accusa di tradimento da parte del Giornale di Montanelli e l’esplicita inclusione nella lista nera di coloro che in Liguria non dovevano essere votati.
Ma sono senza rimpianti. Intuii infatti in quel momento la statura politica di Moro. Si gridò scandalisticamente da più parti al compromesso storico, ma quella di Moro era a mio avviso un’altra cosa. Non c’era un compromesso sulle identità politiche o peggio un accordo sugli affari. Moro si muoveva da statista, con uno sguardo a quanto accadeva nel Paese e con una capacità di confronto e di dialogo anche con l’avversario sulle questioni fondamentali. Capiva, da un lato, che coinvolgendo il PCI, si isolavano completamente le Brigate Rosse e si recideva ogni residua ambiguità di nesso tra alcune frange della sinistra estrema (e dei cattolici) e le BR. Dall’altro, era consapevole dell’importanza, per lo stesso sistema politico, di favorire il processo di democratizzazione del Partito Comunista attraverso l’apertura ad una responsabile partecipazione del PCI alla guida del paese.
Apro qui una parentesi: non si parla mai, negli innumerevoli talk-show televisivi dedicati alla politica, del ruolo che ha avuto la DC nel processo di democratizzazione del Partito Comunista. Sulla DC è calata una “damnatio memoriae”. Landini ha recentemente rivendicato pubblicamente che gli operai, e soprattutto i “suoi” (ideologicamente) operai, hanno dato la libertà e la democrazia all’Italia. In realtà se c’è stata e c’è ancora oggi la democrazia, è certo per il contributo che ha dato la lotta al fascismo condotta insieme da partigiani comunisti, cattolici e laici di varia estrazione, ma anche e forse soprattutto per il decisivo contributo dato da migliaia di americani morti in Italia per combattere i tedeschi. Ed infine, “last but not least”, perché la DC nel ’48 ha vinto le elezioni e ci ha tenuto nell’area atlantica e nella Nato, scoraggiando il disegno di tutti quei partigiani rossi che avevano contribuito a battere il fascismo ma subito dopo la fine della guerra speravano, tenendo anche le armi pronte, in una rivoluzione che portasse l’Italia nell’area di influenza sovietica. Insomma la DC, fin dall’inizio e, negli anni, con il contributo dei partiti laici e del PSI, ci ha evitato di sperimentare la dittatura del comunismo e ci ha garantito la democrazia di cui ancora oggi godiamo.
È per questa ragione e per questa storia che solo l’antifascismo e non anche l’anticomunismo, è diventato per la sinistra il lasciapassare per la legittimazione a governare il Paese, e la sinistra stessa non ha mai dovuto fare fino in fondo i conti con la propria ideologia. Ma per essere veramente democratici occorre essere “antitotalitaristi”, cioè contro ogni forma di dittatura. Mi pare quindi non irragionevole l’espressione emersa a suo tempo nel dibattito politico: “tutti i democratici sono antifascisti, ma non tutti gli antifascisti sono democratici”.
Tornando a Moro, a conferma che non si poteva ridurre la sua linea a quella del compromesso storico, fu inventata l’espressione “convergenze parallele”, un linguaggio certamente politichese ma, a mio avviso, con una forte intenzione di significato, cioè: ” insieme, ma irriducibili l’uno al’altro”. Fu una prova di collaborazione possibile per il bene comune pur nella profonda diversità delle identità.
Nell’assemblea dei gruppi parlamentari della DC ho intuito anche la statura umana di Moro. Il suo richiamo all’unità, cioè al partito come insieme di uomini che fanno un cammino comune, la sua attenzione ai movimenti e alle esperienze vive che si muovono nella società , la sua capacità di confronto e di dialogo anche con gli avversari, lo fanno essere un uomo che, prima di appartenere alla politica, appartiene ad una esperienza culturale e umana che precede la politica, e per il quale la politica è strumento per l’affermazione della vita, dell’iniziativa, della libertà operosa delle persone e delle comunità. Questa sua dimensione umana può forse spiegare anche la presunta debolezza di cui fu accusato per alcune delle 86 lettere che scrisse durante i 55 giorni di prigionia, ammesso e non provato che fossero di sua spontanea iniziativa e non costrette dalle BR.
Infine, ed è il secondo fatto, il giorno in cui si doveva votare la fiducia al nuovo governo, il 16 marzo del ’78, mentre mi trovavo alla Camera in attesa del voto di fiducia, giunse la notizia dell’agguato di via Fani, del rapimento di Moro e dell’uccisione della sua scorta. Il contraccolpo a questa notizia fu che il Parlamento votò in gran massa la fiducia al governo.
Perché le BR rapiscono Moro? Per impedire la nascita di un governo che, coinvolgendo anche il PCI, isolava completamente le componenti estreme della sinistra. Ed infatti, quando durante la prigionia di Moro emerse la proposta di una trattativa con le BR per liberare Moro, che avrebbe significato riconoscerle come legittimi interlocutori delle istituzioni, la DC, in parte combattuta al proprio interno, dovette opporsi per le sue responsabilità di governo del Paese; il PSI si mostro più aperto e favorevole, mentre proprio il PCI fu il più deciso oppositore a qualunque ipotesi di trattativa, anche per gli evidenti problemi politici che un riconoscimento delle BR avrebbe suscitato nella sinistra e a sinistra del partito.
Al di fuori di ogni trattativa, il 22 aprile del ’78 intervenne Paolo VI con il suo appello alle BR: liberate Aldo Moro!
Il cadavere di Moro venne ritrovato il 9 maggio del ’78 in via Caetani, nel bagagliaio di una Renault rossa. Ero alla Camera quando giunse la notizia del ritrovamento di Moro e corsi, insieme ad altri colleghi, in via Caetani.
A volte ripenso allo scandalo Lockheed, che coinvolse diversi paesi e anche il governo italiano, e mi viene alla mente quanto disse Moro in parlamento nel 1977: “non ci faremo processare nelle piazze”. E il pensiero corre anche a Craxi e ad Andreotti.
Forse, se Moro fosse stato ancora vivo, anche Tangentopoli si sarebbe sviluppata diversamente.
In ogni caso credo che, qualunque opinione si abbia dell’agire politico di Moro di quegli anni, questa storia costituisca una testimonianza straordinaria di cosa possa essere veramente la politica di fronte al populismo e al massimalismo estremista e radicale di oggi, privo di progetto politico e di senso dello Stato.
(* già Sindaco di Chiavari, già Deputato al Parlamento)