di GIORGIO ‘GETTO’ VIARENGO *
Come ogni anno, il calendario si presenta ricco di date civili e religiose, quelle festività e ricorrenze che scandiscono il cammino della tradizione. Spesso incontriamo ricorrenze secolari, talvolta millenarie, ma la nostra memoria fatica a individuarle. Una di queste caratterizza un territorio vastissimo difficile da circoscrivere geograficamente, tanto che forse conviene collocarlo nella cultura contadina e ed attribuirlo all’intero continente europeo.
Sto parlando del canto del maggio, quel rituale, o forse, più precisamente, quella liturgia popolare che annunciava l’inizio della “stagione Primiera”. Anche se oggi con l’impazzire del clima tutto diventa imprevedibile e spesso incappiamo in queste trasformazioni nell’ambiente che ci circonda e nel suo paesaggio.
A Leivi e in diverse località del nostro Appennino si tengono puntuali le ‘cantaele’: gruppi di cantori musicisti attraversano le loro comunità per “cantare il maggio” e augurare una stagione ricca grazie ad una natura generosa e capace di donare copiosi raccolti. Si tratta di un canto alternato tra due gruppi, con strofe divisibili in una semplice ma efficace drammaturgia espressa dalle strofe, da accenni mimici e da segni comunicativi tra i cantanti e “il padrone di casa”.
A Leivi, appena la campana della chiesa di San Bartolomeo avrà terminato i suoi rintocchi e la messa sarà conclusa, i “maggianti” si porteranno sul sagrato e si posizioneranno in cerchio con al centro il gonfalone, ecco arrivare il parroco: adesso il canto del maggio può iniziare. Così da secoli si rinnova il rituale dell’inizio della primavera in una comunità che ha saputo tenere viva la propria cultura contadina, una vitalità confermata da due segni forti e distintivi: la costruzione del paesaggio degli ulivi nei terrazzamenti e il canto del maggio.
Le prime strofe sono da sempre cantate al parroco. Questo rituale prende il nome di “rispetto”, con una serie di strofe che vengono cantate solo in questa occasione. Finito il rituale davanti alla chiesa, inizia il “giro”: precise e attesissime tappe, con luoghi canonici dove viene “portato” il maggio, unica possibilità perché venga “saltato” è il sopravvenuto lutto o grave problema famigliare in quella comunità frazionale. Anche in questo caso si tratta d’attenzioni di rispetto verso questa funzione popolare, attesa e con regole precise. Il “capo maggio” si porta davanti alla casa e, alzando il gonfalone, saluta il “padrone di questa bella casa e tutta la sua signoria”, esclamando imperioso: “Siam venuti a cantare il maggio!”. A questo punto i musicisti eseguono il motivo d’apertura e inizia la prima strofa, con un modulo riconoscibile nel grande coro diviso in due voci che si rispondono; e così via per le sedici strofe articolate nelle due lezioni. Il canto descrive il senso di questa liturgia: l’arrivo alla casa, il saluto, l’augurio, la promessa di buoni raccolti e di una natura clemente, la richiesta di doni, il commiato e l’arrivederci.
Le strofe sono accompagnate da strumenti popolari: fisarmonica, chitarre, piffero di Cicagna. Al termine del canto c’è sempre un momento d’evidente festa: il balletto. Qui i maggianti si uniscono in copie eseguendo un ballo: un coinvolgimento coreutico per tutti i presenti.
I luoghi dove questa ritualità, un tempo diffusissima, è ancora presente, sono Leivi, Cogorno, l’alta Val Graveglia, Santo Stefano d’Aveto e la Valle di Vara. Un’ area vasta, ma tenuta insieme dalla stessa cultura contadina, dall’omogeneità di terre dove la campagna vive ancora ed è capace di dare voce a queste tradizioni. Il rituale è senza dubbio riferito a primordiali riti pagani, segni di festa che esaltavano la fine delle “tenebre” invernali per festeggiare la ritrovata “luce” delle primavera.
Con il tempo e la cristianizzazione il canto ha subito variazioni adeguandosi ad una nuova visione della vita, e questo ha cambiato non poco il rito, spesso risultandone stravolto e portato a nuovi significati: come il “maggio delle anime purganti” di Caranza e Albareto.
Il canto del maggio, la ‘cantaela’, si distingueva dal canto religioso della ‘cantegora’, che era finalizzato alla raccolta di proventi per “fare” le messe e chiedere il “riscatto” delle anime sante. In uno statuto medievale della comunità di Chiavari, troviamo un articolo che ci permette di datare queste distinzioni. Un dispositivo statutario del 1469 vietava alle donne di Chiavari di partecipare al canto delle “cantegore” se queste erano eseguite nelle ore notturne.
La nostra cultura è spesso corrotta o cancellata da un nuovo che non ha saputo coniugarsi col nostro passato, oppure dalla sciocca riproposizione banalmente folcloristica e legata alle tante sagre tutte uguali.
Questo frammento del “maggio” rimane invece come reperto prezioso di un grande paesaggio, fatto da uomini che per secoli hanno abitato questa terra, costruendo muri a secco, uliveti ed orti, e cantando la loro terra: il canto del maggio significa questo, un canto della terra che sopravvive.
(* storico e cultore di tradizioni locali)