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Giovedì 4 dicembre 2025 - Numero 403

Bettino Craxi: l’attualità di un pensiero riformista a venticinque anni dalla scomparsa

Mosso sempre da convinzioni profonde, da una visione politica totalizzante che ha saputo guardare oltre il suo tempo, Craxi ha saputo non solo leggere futuro ma interpretarlo
Stefania Craxi, presidente della Commissione Esteri del Senato
Stefania Craxi, presidente della Commissione Esteri del Senato
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Pubblichiamo l’intervento della Senatrice Stefania Craxi, presidente della Commissione Esteri del Senato, al convegno organizzato dall’Istituto Socialista Ligure di Studi Storici presso il Circolo Matteotti il 29 novembre 2025, in occasione del venticinquesimo anniversario della morte di Bettino Craxi.

di STEFANIA GABRIELLA ANASTASIA CRAXI

Ricordare Bettino Craxi, riflettere intorno alla sua figura, la sua lezione umana ancor prima che politica, non è solo un esercizio che ha a che fare con la memoria ma riguarda l’oggi e il domani. Craxi è stato un uomo da ideali risorgimentali, con i piedi piantati nell’Ottocento, in quell’umanesimo socialista di impronta garibaldina che rappresento il tratto caratterizzante della sua esistenza.

Mosso sempre da convinzioni profonde, da una visione politica totalizzante che ha saputo guardare oltre il suo tempo, Craxi ha saputo non solo leggere futuro ma interpretarlo. È stato un uomo che, anche negli anni difficili dell’esilio tunisino, ha compreso per tempo le traiettorie e le insidie delle nuove stagioni. Ha avvertito, come una Cassandra inascoltata, dei rischi, delle derive e delle contraddizioni – interne e internazionali – con i quali si sarebbe scontrato il “nuovo mondo” post- Guerra Fredda e delle conseguenze di una certa “globalizzazione selvaggia” che per decenni si sarebbero riversate sull’Italia, l’Europa, pregiudicando gli stessi equilibri internazionali. Dalla costruzione europea passando per l’imporsi delle emergenze mediterranee e mediorientali – con fenomeni quali l’esplosione demografica, le migrazioni, il radicalismo religioso – Craxi rappresenta ancora oggi una bussola per i governanti.

Per questo, si deve parlare dell’attualità del pensiero di Craxi. Non per nostalgia, non per tenerlo agganciato a noi, ma per necessità. Infatti, oggi più che mai abbiamo bisogno di avere riferimenti politici e culturali, modelli a cui attingere. Ciò non significa ricadere nelle ideologie archiviate dalla Storia ma guardare con pragmatismo, con metodo riformista, alla realtà che cambia. Noi socialisti lo capimmo per primi e per tempo. Lo facemmo già a Rimini agli inizi degli anni ’80 e da quelle intuizioni, dall’elaborazione figlia del “nuovo corso”, abbiamo saputo dare una prospettiva concreta di crescita e di riforme. Ecco, oggi, da quell’esperienza si può e si deve trarre insegnamento. Non è solo un passato che non è passato ma una lezione per il futuro.

Inoltre, ricordare Craxi in questa terra richiama alla mente le pagine più esaltati della comunità a cui sento di appartenere. Genova non è una città come le altre. Ha scritto pagine fondamentali della storia del socialismo italiano: qui, nel 1892, nacque il Partito Socialista Italiano, dando voce alle speranze di emancipazione e giustizia sociale di un Paese che cercava il suo futuro. Genova è stata culla di idee, di lotte, di libertà. E Craxi, pur non essendo ligure, ebbe con questa tradizione un legame ideale: la cultura riformista e libertaria che questa città rappresentava era la stessa che lui volle rilanciare negli anni più difficili per il PSI, quando il partito rischiava di essere schiacciato tra l’egemonia comunista e la subalternità democristiana. Ricordare Craxi a Genova significa tornare alle radici di un socialismo che seppe innovarsi e parlare al futuro.

Per inciso, ricordo ancora l’iniziativa per il centenario della nascita del partito nel 1992 e con quale orgoglio si apprestasse a celebrare quell’anniversario che non segnò per noi e per l’Italia l’inizio di un tempo foriero di fortune. 

Craxi fu il primo socialista a guidare il governo italiano, dal 1983 al 1987. Con lui si ruppe la “democrazia bloccata” e il PSI tornò protagonista con una stagione di buon governo. Il suo riformismo non fu solo economico, ma politico e culturale: dal tema delle riforme di sistema – istituzionali, della giustizia – fino al rifiuto del dogmatismo marxista a favore di un socialismo liberale, centrato sull’individuo, sull’autonomia e sulla modernizzazione del Paese. 

Le sue scelte furono coraggiose. Il decreto di San Valentino del 1984, che ridusse la scala mobile, fu contestato, ma permise di contenere l’inflazione e avviare una stagione di crescita che portò l’Italia tra le prime potenze industriali mondiali. Il nuovo Concordato con la Chiesa, sempre nel 1984, segnò una svolta storica: laicità moderna, rispetto delle libertà. Craxi voleva una democrazia governante, capace di decidere, sottratta alle “lentocrazie” e ai veti incrociati.

Ma Craxi fu soprattutto un leader internazionale con una visione globale. Dall’installazione degli euromissili all’ episodio di Sigonella, definì in modo “nuovo” il rapporto transatlantico, senza mai metterne in discussione la sua natura strategica e insostituibile.  Fu l’uomo della libertà, della libertà dell’individuo nelle sue scelte, dalla sua centralità nella società e della sua superiorità rispetto alle presunte ragion di Stato – pensiamo al caso Moro. Ma fu soprattutto l’uomo della libertà dei popoli contro i regimi, di destra e di sinistra, in tutto il mondo. Fu contro Pinochet in Cile, per Solidarność in Polonia, per il dialogo e la pace nel Mediterraneo. 

Una personalità straordinaria, coraggiosa, mai piegato alla logica della convenienza, delle opportunità e degli opportunismi, caparbio, orgoglioso del suo Paese che chiamava Patria.

Perciò non può stupire la sua capacità di leggere il futuro. Negli anni ’90, dall’esilio, denunciò i rischi della globalizzazione come “nuovi imperialismi finanziari e militari” e la deriva di un sistema politico nostrano ed europeo, con una costruzione politica bloccata, con l’Europa sociale sostituita dall’Europa della finanza. Intuì, ben prima degli eventi dell’oggi, la necessità di un’Europa forte, con capacità di difesa autonoma, e il ruolo strategico che essa avrebbe dovuto giocare nella vasta area del Mediterraneo. Temi irrisolti, oggi al centro dell’agenda internazionale. 

A venticinque anni dalla sua morte, molte delle questioni che Craxi sollevava sono ancora aperte. La riforma delle istituzioni, il tema giustizia, il dibattito sulla governabilità, richiama le sue proposte. La crisi internazionale e le sfide migratorie ripropongono la sua visione di un’Italia protagonista nel Mediterraneo. La tensione tra crescita, sviluppo e giustizia sociale è ancora il cuore del riformismo.

Craxi amava ripetere: «Un minuto prima che una situazione degeneri bisogna saper prendere una decisione, assumere una responsabilità, correre un rischio». Una frase che sintetizza il suo approccio pragmatico e coraggioso. 

Craxi è stato un uomo di sinistra, l’unica sinistra che ha retto il confronto con il passato. Spiace, cha questa sinistra continui a balbettare di fronte al suo nome, che nonostante il tempo trascorso, fatichi a fare i conti non solo con la sua stagione ma con la sua politica. Questa sinistra, in preda peraltro ad una deriva massimalista e populista, professa una cultura che è agli antipodi della cultura craxiana. Cosà c’è del riformismo liberale in loro? Nulla, siamo in presenza di una versione più retrograda e settaria del comunismo berlingueriano, mix tra populismo salottiero, una “gauche caviar” in salsa nostrana, demagogia spinta, ammantata in una cultura woke che è l’antitesi della libertà socialista.

Il riformismo socialista di Bettino Craxi nasceva da una visione pragmatica e liberale: un socialismo che non si chiudeva nei dogmi, ma che si apriva alla modernità, alla responsabilità di governo, alla centralità dell’individuo. Il progressismo di maniera di questo sinistra-sinistrata, si fonda su un approccio identitario e spesso dogmatico, che frammenta la società in gruppi contrapposti e riduce il dibattito politico a una questione di linguaggi e simboli, più che di sostanza. Dove Craxi parlava di riforme strutturali, di crescita economica, di Europa forte e di Mediterraneo strategico, la cultura progressista concentra l’attenzione su micro-conflitti culturali, imponendo una visione che tende a sostituire il confronto democratico con la censura morale.

Il riformismo craxiano era inclusivo e universalista: puntava a dare più libertà e opportunità a tutti, senza creare nuove barriere ideologiche. Questo progressismo, invece, rischia di produrre una sinistra che non governa il cambiamento, ma lo subisce, perché preferisce occuparsi, come nella tradizione movimentista, di battaglie da salotto anziché di battaglie politiche. Craxi avrebbe considerato questa deriva come una rinuncia alla missione storica del socialismo: guidare il progresso, non inseguire mode culturali.

Ha ragione Bettini, quando dice: basta con questo riformismo. Con grande onestà intellettuale, il maître a penser della sinistra italiana, il suo nuovo padre nobile, butta la maschera e rivela qualche giorno fa che questa sinistra non vuole nulla avere a che fare con il riformismo.  Mi chiedo cosa ci facciano ancora alcuni socialisti, ma anche alcuni cattolici liberali, ma anche alcune persone di buonsenso in compagnia di questa sinistra – forse preferiscono sventolare qualche simbolo per ottenere qualche posto che non avranno anziché sventolare le proprie idee per fare in modo che trovino posto.

Non è un paradosso – almeno non in senso stretto – se il centrodestra italiano, con tutte le sue contraddizioni, abbia fatto propria la lezione craxiana più di questa sinistra. Loro non possono fare i conti con Craxi perché non vogliono e perché non possono. E non è un paradosso perché la rottura del ’92-’94 ha mutato in questo paese radicalmente la natura degli schieramenti, perché l’elettorato prima ancora che gli eletti che proveniva dalle grandi culture democratiche del penta-partito ha trovato nel centrodestra casa, diritto di cittadinanza per la propria storia e per le proprie idee.

Per questo molte delle battaglie che furono il cuore del riformismo socialista craxiano sono oggi portate avanti – magari anche maldestramente – dal centrodestra. Non si tratta di una semplice appropriazione simbolica o, di come ha detto qualche socialista che doveva ridarci l’onore, di una mia operazione politica spregiudicata, ma di una convergenza naturale su temi strategici che Craxi aveva indicato con lucidità e coraggio, e che la sinistra di ieri, di oggi e di domani, non sa fare.

Mentre la sinistra italiana resta prigioniera di giustizialismo, populismo identitario e immobilismo istituzionale, se altri parlano e operano di riforma delle istituzioni, di riforma della giustizia, della politica mediterranea e della costruzione di un’Europa diversa, di un atlantismo pragmatico non gliene si può fare una colpa.

Craxi ha lasciato un’eredità al Paese. C’è chi vuole a suo modo coglierla e chi no, chi ha una capacità di intercettare questioni che Craxi aveva posto con decenni di anticipo e chi non vuole e non può, perché per farlo bisogna anche essere credibili agli occhi dell’opinione pubblica. 

Il referendum sulla giustizia è una cartina di torna sole.  E’ un referendum che ha a che fare con l’oggi, ma che riguarda anche la stagione di Tangentopoli. Certo, il provvedimento forse non è perfetto, né quello definitivo. Ma rappresenta un segnale politico chiaro: la giustizia non può restare fuori dal dibattito sulla riforma istituzionale, e l’equilibrio tra i poteri, o meglio lo squilibrio di questi anni, va riformato, non cristallizzato.

Il referendum sarà quindi un momento alto della vita repubblicana. Non ci sarà quorum, ma si imporrà una scelta decisiva: tra chi vuole riformare per rafforzare la democrazia e chi preferisce l’immobilismo che la democrazia la svilisce, tra una magistratura divisa in correnti che persegue logiche di puro potere e una giustizia finalmente orientata alla tutela dei cittadini.  Sostenerlo, anche con spirito critico, significa fare dopo tanti anni un passo in avanti, avviare un percorso di cambiamento in direzione del futuro.  E allora la domanda è chiara: può dirsi riformista chi si tira indietro di fronte a questa sfida, magari dicendo che non sa se andrà a votare o vergando addirittura editoriali contrati a questa riforma? Può dirsi socialista chi dimentica che la giustizia è il cuore stesso della libertà e dell’uguaglianza?

Io penso di no. Perché senza giustizia, il riformismo è solo facciata. Senza giustizia, la democrazia è zoppa. Senza giustizia, il socialismo tradisce se stesso e la propria Storia. Lo facciamo per convinzione, per ragione e non per fede, pensando a quanti, in primis Bettino Craxi, hanno pagato con la vita le conseguenze di una giustizia ingiusta.

Ecco, ricordare Bettino Craxi non significa solo parlare di ciò che è stato ma continuare a combattere e a difendere quelle battaglie di civiltà di cui è stato artefice e alfiere. Aggiungo, è un atto di responsabilità verso il futuro. Il suo pensiero ci invita a riflettere su tre parole chiave: riforme, autonomia, modernità. In un tempo di crisi delle democrazie e di sfide globali, la lezione craxiana è più viva che mai.

E forse la frase che meglio lo rappresenta è quella che volle sulla sua tomba: «La mia libertà equivale alla mia vita».  Genova, culla del socialismo, è il luogo giusto per rilanciare anche questa riflessione: non solo per celebrare un uomo a cui la storia sta dando il giusto riconoscimento e il giusto tributo, ma per ritornare a far vivere quelle idee di libertà e di progresso che hanno caratterizzato la storia del riformismo socialista.

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