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di MATTEO MUZIO *
La Casa Bianca non è mai stata un monumento immutabile. Fin dalla sua progettazione nel 1792 da parte dell’irlandese James Hoban, l’edificio ha subito trasformazioni, incendi e restauri. Bruciata nel 1814 dagli inglesi durante la guerra del 1812, ricostruita nel 1817, ampliata con porticati sotto Andrew Jackson – il primo populista della storia americana – e riformata da Roosevelt nel 1902 con l’aggiunta della West Wing. Ogni intervento ha riflesso un’epoca, una visione del potere.
Ora, la seconda amministrazione Trump propone la più ambiziosa modifica di sempre: una sala da ballo da 8.000 metri quadri e 650 posti, pensata per banchetti presidenziali e cerimonie da ancien régime. Un’aggiunta che stride con l’ideale del “primo servitore del popolo” incarnato da George Washington, che rifiutò titoli pomposi come “Lord Protettore delle Libertà”.
Il progetto, dal costo stimato di 250 milioni di dollari, dovrebbe essere finanziato da “donatori privati” non meglio identificati. Ma le polemiche non riguardano solo il denaro. La promessa di non intaccare la struttura storica è già stata disattesa: ruspe sono all’opera sulla East Wing, come mostrano foto trapelate dagli uffici del Tesoro. Una mail interna, svelata dal Wall Street Journal, invita i dipendenti a non pubblicare immagini sui social. Troppo tardi.
La senatrice democratica Tina Smith ha definito le foto “simboliche dei tempi in cui viviamo”. Il portavoce Steven Cheung ha liquidato le critiche con un’alzata di spalle, definendo gli oppositori “sfigati” incapaci di comprendere la necessità di “rinnovare” anche i luoghi storici.
Ma il punto non è architettonico. È politico. La demolizione parziale della Casa Bianca – simbolo per eccellenza della democrazia americana – evoca fantasmi ben più inquietanti. Come il volo United 93, dirottato l’11 settembre 2001 con l’obiettivo fallito di colpire proprio quel palazzo. Come a simboleggiare una trasformazione dell’architettura istituzionale del Paese.
Trump non si limita a governare: vuole rifare l’America a sua immagine e somiglianza. E lo fa partendo dai simboli. Lo si vede nei post ufficiali della Casa Bianca, sempre più aggressivi e sarcastici, lontani anni luce dal tono istituzionale dei predecessori. La politica diventa spettacolo, e l’architettura ne è scenografia.
Una scenografia con radici molto profonde e ideologiche, a cui l’attuale presidente tiene molto. Aveva già scritto un ordine esecutivo il 23 dicembre 2020 sul tema, poi cancellato qualche mese più tardi dall’amministrazione di Joe Biden, per imporre un unico e “brillante” stile “neoclassico”.
Appena tornato alla Casa Bianca, lo scorso 20 gennaio Trump ha subito ripristinato delle linee guida per la U.S. General Service Administration diventate poi una direttiva vera e propria lo scorso 28 agosto con un titolo molto Maga: “Rendere l’architettura federale di nuovo bella”. Qual è la bellezza trumpiana? Quella greco-romana, ovviamente, che deve rimpiazzare quella “brutalista”. A una prima analisi, sembrerebbe un ritorno al modello classicheggiante voluto dai Padri Fondatori. In realtà il senso è molto diverso. L’idea non è così nuova all’interno del mondo conservatore anglofono: filosofi e scrittori come Roger Scruton e Tom Wolfe si sono ampiamente espressi contro l’architettura modernista e anche dietro a questo nuovo ordine esecutivo si dice che ci siano critici di tutto rispetto come Catesby Leigh, già editorialista della rivista d’area The American Conservative e fellow del Claremont Institute ma anche Justin Shubow, già nominato da Trump nel suo primo mandato nel consiglio federale delle Belle Arti per essere rimosso da Biden qualche mese dopo. Era stato proprio Shubow, si era detto all’epoca, ad essere la mente della prima versione dell’ordine esecutivo, che però nel 2020 venne accolto con un’alzata di spalle perché erano ormai gli ultimi giorni di un presidente uscente che stava facendo di tutto per screditarsi con una raffica di bufale sulle elezioni rubate.
A parole lo stile è simile a quello dei Padri Fondatori: ma mentre molti di loro come ad esempio Thomas Jefferson volevano che i nuovi edifici rappresentassero la rinascita della virtù repubblicana in un mondo di monarchi e aristocrazie, i palazzi marmorei di Trump vogliono incutere timore. E allora non bisogna guardare alla storia americana, ma a quella sovietica, per trovare qualcosa di simile: la direttiva che nel 1934 impose lo stile del cosiddetto “realismo socialista”. In questo caso sarebbe un “realismo trumpista” con proporzioni imponenti che vuole lasciare un forte segno nella storia degli Stati Uniti che però sarebbe di cesura. Addio libertà repubblicana, benvenuta deferenza al trumpismo.
(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)