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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

Chiavari 1835: la tempesta del Cholera morbus. Un evento tragico che segnò le sorti di tutto il territorio

Il colera non poteva essere sconfitto con le conoscenze del tempo, ma la città reagì con la partecipazione sorretta dalla fede e l’epidemia passò
Il morbo del colera afflisse Chiavari nel 1835 causando centinaia di morti
Il morbo del colera afflisse Chiavari nel 1835 causando centinaia di morti
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Prosegue la serie di articoli di Giorgio ‘Getto’ Viarengo dedicati ad illustrare la Chiavari dell’Ottocento e i tanti modi ed aspetti per i quali questo può a buon diritto essere riconosciuto come ‘il secolo d’oro’ della nostra città.

di GIORGIO ‘GETTO’ VIARENGO *

Nel 1835 si abbatté su Chiavari la tempesta del colera. La città non era provvista di un acquedotto, e i pozzi neri potevano così inquinare le acque attinte per usi alimentari. 

Tra gli studiosi di storia delle epidemie è ben nota la correlazione tra mancanza di un adeguato sistema idrico e fognario e di elementari principi di igiene pubblica, e probabilità di diffusione del vibrione colerico nelle comunità.

Ben presto la paura nei confronti della nuova sconosciuta malattia si trasformò in terrore. I pregiudizi minarono le basi della convivenza nell’intera collettività. Le autorità iniziarono a diffondere i primi provvedimenti per contenere il contagio; in particolare erano messi sotto controllo i porti e le rotte di navigazione, spesso collegate da linee commerciali che transitavano nel Tigullio.

Il tono delle notifiche era perentorio, e richiamava le responsabilità di quanti mettevano “a repentaglio la salute pubblica del Regno nelle attuali circostanze luttuose dell’apparizione del Cholera Morbus”. Da Genova giungevano i primi dati che rilevavano 3.219 persone decedute. Questa emergenza scatenò la fuga dalla città: su 96.000 residenti più di 30.000 sfollarono. Questa reazione ebbe effetti micidiali per il propagarsi del contagio: in una relazione scientifica stesa in quei tempi si trova un riferimento chiaro sulle tensioni portate dal nuovo male: “si moltiplicano a dismisura nello stato generale confusione, avvilimento e allarme che erasi destato con l’ingrossare della malattia, e colla fuga precipitosa dei più timidi, che si volgevano a guisa di forsennati qua e là in traccia di un asilo di sicurezza. L’emigrazione de’ cittadini contribuì grandemente a diffondere il male nei luoghi più remoti, nelle valli più profonde e perfino sulle cime dei monti”. 

Nell’estate del 1835, nei giorni del massimo contagio nella città di Genova, il Regno di Sardegna attraverso il magistrato di sanità emetteva una nuova notifica per coinvolgere i parroci. Vi si trovava l’indicazione di “tranquillizzare gli animi di tutte le persone, di inspirare e inculcare loro somma confidenza nelle misure che si prenderanno dal Governo, docilità e obbedienza ai suoi ordini, temperanza nel vivere e allontanamento da ogni qualunque eccesso come una delle principali cause dell’infezione”.

Tornava drammatica la voce dei “veleni sparsi”, le classi popolari credevano che tali veleni fossero deliberatamente messi nei pozzi, nelle acque, negli alimenti. Le autorità diventavano, nell’immaginario collettivo, i portatori e diffusori dell’epidemia colerica; si ripetevano gli stati d’animo dei giorni della peste, e tornava drammaticamente attuale la figura dell’untore.

Per cercare di contrastare questo clima di panico collettivo venne affisso un manifesto, a Genova il 19 agosto 1835, a Chiavari il 23. Il documento portava la firma del Marchese Filippo Paolucci, governatore comandante della Divisione di Genova. Il testo testimonia con precisione della tensione e delle derive irrazionali che si erano  diffuse  tra la popolazione: “Coll’animo compreso da profondo rammarico abbiamo dovuto ravvisare essere anche in questa Città, ed in vari luoghi della Divisione, invalsa la voce, già accreditata in altre parti dove imperversò la Malattia Colerica, che la cagione di tale morbo non stesse già nella natura, ma fosse frutto d’iniqui disegni, ed effetto di cibi, di bevande, od acque contaminate da veleno; e Ci addolorò il vedere che queste voci di supposti veneficj, abbiano mosso a rumore qualche parte del volgo, portandola ad aggredire persone inoffensive, pacifiche, innocenti, e malamente denunziate per ree di avvelenamento, come ebbe dimostrato chiaramente la praticatasi diligente inquisizione onde chiarire i fatti loro dal clamor popolare attribuiti”. 

I colpiti dal morbo venivano trasportati presso il lazzaretto di Chiavari. La struttura era ubicata all’interno dell’ospedale civile, ed era diretta dal dottore in medicina Giovanni Antonio Mongiardini. Il protocollo che si applicava agli ammalati, disposto dal “protomedico Griffa e vidimato dalla Giunta Provinciale di Sanità da G.M. Garibaldi”, si rifaceva alla farmacia tradizionale e prevedeva l’utilizzo “nel tempo in cui esisterà il Cholera Morbus”, di “Sal Marina, Spirito di vino, Canfora, Senapa pesta, Erbe Aromatiche, Sanguisughe …”. 

Nei locali adibiti a lazzaretto, il Mongiardini tentava il soccorso ai tanti colpiti dal male. I dati statistici relativi a Chiavari indicano 1.577 contagiati e 715 decessi.

Dal “Bollettino dei Casi ivi avvenuti” possiamo ricostruire il destino di Barabino Francesco, di anni 34, professione vetturino: “deceduto il 29 agosto nella sala de’ osservazione”; il secondo decesso riguarda Casaretto Enrico “di anni sessanta, marinaio”; sarà poi la volta di Descalzi Giuseppe “nativo di Caperana occupato a Genova di professione confettiere d’anni 19… deceduto ore due del mattino dopo essere stato visitato dal Medico Questa Domenico nel luogo di Caperana … e lo giudicò affetto di Cholera Morbus come da suo rapporto di questo giorno”. 

Per comprendere più chiaramente la portata di tale epidemia si possono rileggere i dati della “Statistica Medica della Regia Commissione”: il territorio di Genova e i comuni limitrofi verificarono 10.308 casi con 5.316 decessi, la Liguria contò 13.721 casi con 7.069 morti. I morti per colera si sommarono tragicamente a quelli portati dall’epidemia di vaiolo, che aveva colpito Chiavari nel 1829, con 4.073 casi e 569 decessi. 

Ancora una volta, durante il massimo infuriare dell’epidemia di colera, la fede dei credenti divenne un grande progetto di partecipazione. La città si strinse intorno al vescovo Gianelli per dare vita ad un grande triduo solenne: la chiesa di Chiavari, le autorità, i cittadini, chiedevano la grazia di essere preservati dall’epidemia. Si organizzò una grande processione per l’alba di martedì 25 agosto, ma la giornata iniziò con una forte pioggia che impediva lo svolgersi della manifestazione. Alle 16, però, gli elementi si placarono e si decise d’avviare la processione. La partecipazione della popolazione fu definita dai cronisti dell’epoca come mai vista, “imponente, dopo aver attraversate tutte le strade, entro la città, uscendo dalla porta della Cittadella e percorrendo Piazza di N. Signora dell’Orto, giunse al Santuario”. Un volo di rondini fu interpretato come il segnale di grazia ottenuta.

Questa la cronaca della tempesta epidemica che colpì Chiavari. Il colera non poteva essere sconfitto con le conoscenze del tempo, ma la città reagì con la partecipazione sorretta dalla fede e l’epidemia passò.

Saranno poi le nuove indicazioni d’igiene pubblica a trovare un contenimento per quel male tremendo. Quasi un secolo prima della scoperta delle terapie antibiotiche l’introduzione di una cultura scientifica dell’igiene contribuì ad impedire la diffusione epidemica del morbo.

(* storico e studioso delle tradizioni locali)

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