di DANILO SANGUINETI
Ci sono esperienze di vita così pregne di insegnamenti che fanno sospettare di essere di fronte a un dissimulato parto dell’infernale intelligenza artificiale. Lascia incantati il racconto, senza enfasi né mania da protagonista, di Federica Sala: il come sia passata da essere una brava e ben inquadrata fotografa di moda a inventarsi, mostrando insospettabile bravura, ancor giovane ma non più ragazzina, un mestiere che, per vetero-maschilismo, consuetudini e tradizione di una professione vissuta con rigore confessionale, era il meno adatto tra quelli che uno poteva immaginare.
Federica, brianzola virata in ligure da collina (tipologia particolarissima, differente dal “genovese da battigia” e dal “valligiano da Appennini”), ha portato a termine un incredibile triplo avvitamento nel circo della vita e lo ha fatto senza avere alcuna rete di protezione. Un’impresa prendendo in mano e portando avanti con indiscutibile successo l’impresa con la I maiuscola invenzione ed opera di un fratello amatissimo, falciato dal morbo che cinque anni fa pareva oscuro e che oggi è declassato a un coronavirus qualsiasi.
Il solo nome dell’azienda agricola, “Casa del Diavolo”, fa capire che nella famiglia Sala non hanno paura neppure del demonio. Perché ci vuole coraggio per scegliere un posto che fin dal toponimo fa comprendere quanto sia isolato. Oggi magari un po’ meno di quando nei meandri di una collina-contrafforte ai margini della Val Petronio sorgevano un gruppo di case fuori dai sentieri e persino dalle rotte degli uomini.
Adesso la strada in qualche modo raggiunge la “mansion” dei Sala e le casupole che le fanno corona ma in ogni caso, come ricorda Federica, “quando quindici anni fa mio fratello Valerio mi portò a visitarla fui stupita dal buio e dal silenzio che scendevano su Località Montà 1 (il suo indirizzo per il catasto N.d.r.) alla sera. Pareva che questa zona della valle fosse tagliata fuori dal mondo civile. Ma Valerio, al solito, aveva visto lungo”.
Perché quella che è diventata “Casa del Diavolo” è la diretta prosecuzione della visione del fondatore dell’azienda, l’altro protagonista, purtroppo muto ma sempre vivissimo nel ricorso, di questa storia. “La mia famiglia è originaria della Brianza. Là vivevamo tutti, mio padre Antonio, meccanico, mia madre Ester, mia zia Nadia, e poi noi due, la seconda generazione, Valerio ingegnere aerospaziale e io Federica, laureata, grafica pubblicitaria e fotografa soprattutto ma non esclusivamente di moda. Il punto di svolta fu la decisione di Valerio di non fare quello per cui aveva studiato quasi venti anni. Mi disse che appena entrato in un hangar della ditta che lo aveva assunto si sentì male: non se la sentiva, voleva stare all’aria aperta, andare a caccia per i boschi ed i colli assieme ai suoi amati Bracchi Italiani. Proprio le sue amicizie di caccia furono determinanti: noi andavamo al mare a Moneglia, i colleghi cacciatori gli dissero di cercare nella valle alle spalle della costa. Appena lo portarono a vedere Casa del Diavolo se ne innamorò. Un posto selvaggio, campi ed edifici che minacciavano di andare in rovina perché il padrone e gestore della azienda agricola, Lino Marcenaro, era diventato anziano, così la sua consorte, e non se la sentivano di portare avanti un complesso di sette ettari di terreno, tutto terrazzato, dove si fa andare più il sudore della fronte che il motore delle macchine, dove scorre l’olio di gomito piuttosto che quello dei diesel. Gli misero una sola condizione: portare avanti la loro opera. Valerio ne fu entusiasta. La mia famiglia decise di sostenerlo, vedendo il suo entusiasmo”.
C’era l’oliveto, c’erano le coltivazioni, il vigneto non era una parte preponderante nell’impresa. “Valerio con la sua incredibile energia e la sua incrollabile fiducia si rimboccò le maniche e partendo da zero, in pochi mesi, diventò viticoltore. Lavoro duro dall’alba al pomeriggio tardi e alla sera invece di rifiatare, via la tuta, inforcati gli occhiali, e sotto con leggere libri, riviste, studiare viticoltura, agraria, enologia. E siccome sapeva farsi ben volere, ascoltare i consigli dei colleghi della zona, capire cosa fare e cosa non fare. In quattro anni si fece conoscere, ottenne le necessarie specializzazioni. Io ero stupita di come riuscisse a stare tra enologi ed agronomi con semplicità e allo stesso tempo con sicurezza, come se non avesse mai fatto altro nella vita”.
Nel 2014 il via alla produzione ufficiale: “Una grande emozione, si realizza il sogno: l’uscita dell’etichetta N°1 DOC e sul mercato arrivarono il Ciliegiolo, la Bianchetta ed il Dolcetto. Ma Valerio andava sempre avanti: nel 2017 veniamo premiati nella Top Hundred Bianchetta alla rassegna della Golosaria, evento di Cultura e Gusto promossa dal Club di Papillon dove si accendono i riflettori sui produttori artigianali d’Italia. Nel 2018 sperimenta una nuova macerazione della bianchetta. 160 bottiglie solamente, ma applausi da parte dei competenti e dei… riceventi”.
Federica in questo periodo è ancora di base in Brianza, rimane con il papà e la zia a fare la spola con la Liguria mentre mamma Ester è quella che resta di più vicino a Valerio. Ogni minuto libero però lo passa a Casa del Diavolo. Ha preso in carico l’oliveto. “Non immaginavo che il fato avrebbe deciso diversamente per me e per tutti noi. Scoppa il Covid e ad inizio di settembre 2020 Valerio accusa i primi sintomi. Era una persona senza grandi patologie ma il virus lo stronca in pochi giorni. Eravamo nella prima fase, da soli sei mesi la pandemia si era abbattuta sul nostro paese. Non ci fu niente da fare”.

La saetta aveva schiantato la giovane quercia, una mazzata che colpisce una famiglia incredibilmente unita. Federica a distanza di cinque anni ancora si commuove, ma come allora ha nei suoi geni quella fierezza e resilienza che fanno sospettare ascendenze longobarde, e riprende il filo del racconto e della sua esistenza.
“Il primo impulso fu di gettare la spugna. Senza di lui, senza le sue competenze come fare? Io non sapevo quasi niente di viticoltura, ancor meno di enologia, ero solo la sua assistente, delle braccia senza più una testa. Poi guardai i prati, guardai gli alberi, le vigne, gli olivi, la casa, il lento scorrere del Petronio giù nella valle, persino il cielo, abbagliante e incombente come in città neppure puoi sognarti di ammirare, tutto qui parlava di Valerio. E sentii che avevo l’obbligo di raccogliere il testimone, di far sì che non andasse perduto il suo sforzo. E poi, lo confesso, il lavoro fu un potente anestetico per un dolore che mi punge oggi come allora”. Federica fa una pausa. Si passa la mano sugli occhi, che tornano a splendere quando si volge verso i “suoi” campi.
“Decisi di fare come Valerio. Svolta a U senza voltarsi indietro. Lascio il lavoro in Brianza, vengo e mi sistemo qui assieme a mamma e zia. Papà rimane su ma appena può ci raggiunge. Anche per me inizia la fase di lavoro e studio “matto e disperatissimo” alla Alfieri. I colleghi vignaioli e gli altri proprietari della valle furono gentilissimi. Si offrirono di aiutarmi per il primo anno, di fare per me potature, raccolti, vendemmie ecc.ecc. Dissi no: perché se avessi accettato mi sarei adagiata, non avrei avuto lo stimolo per imparare. All’inizio fu un vero shock, mi sembrava di non riuscire in niente, poi a poco a poco. Ho appreso e ho trasformato la sapienza in prodotti. Oggi dopo un anno e mezzo di corso ho raggiunto il grado di “sommelier di terzo livello”. E non mi fermo di certo. In questo campo non si finisce di imparare”.
Essere donna, giovane, “foresta” non l’ha rallentata neppure di un secondo. “Beh qualche diffidenza l’ho dovuta vincere e qualche ostacolo l’ho superato solo grazie alla forza di volontà. Ma in questo ambiente se mostri serietà ti tendono la mano senza esitare. E io di essere una “seria” ho avuto modo di mostrarlo in abbondanza. Casa del Diavolo vuole restare un’azienda di artigiani vignaioli ma questo non significa che non stiamo progettando di aumentare, anzi raddoppiare, il nostro vigneto. Aiuta ad inerpicarsi per questa strada erta il rispetto e l’apprezzamento della comunità. Stiamo riportando vita ad un pezzo di territorio che sembrava destinato a spopolarsi. Anche questo lo metto nella colonna dei successi”.
In un settore, quello dei vini, che in Italia è questione quasi di religione, la capacità di farsi largo mostrata da Federica appare quasi… diabolica. Niente paura, non c’è bisogno dell’esorcista. L’aforisma di Baudelaire – “La più bella astuzia del diavolo è quella di persuadervi che egli non esiste!” – viene scardinato dal fruttifero ed armonico rotolarsi delle giornate in Località Monta 1. Federica ed i suoi hanno deciso che il signore delle tenebre non è così brutto come lo si dipinge. Basta spremerlo.