Prosegue sul nostro settimanale ‘Piazza Levante’ il dibattito innescato negli scorsi numeri dall’editoriale del nostro editore Antonio Gozzi intitolato ‘Ma il modello Genova è cultura del malaffare?’ (leggi qui) e dalla conseguente risposta da parte degli esponenti liguri del Partito Democratico (leggi qui). In questo numero ospitiamo l’intervento da parte di Leopoldo Destro, delegato di Confindustria per i trasporti, la logistica e l’industria del turismo.
di LEOPOLDO DESTRO *
In questi giorni ho assistito allo scambio di opinioni tra Tonino Gozzi – Presidente di Federacciai e Special Advisor in Confindustria nazionale per la competitività e l’autonomia strategica europea – e gli esponenti del PD Liguria e Genova a proposito dell’esistenza o meno del cd. Modello Genova e sulle questioni riguardanti lo sviluppo infrastrutturale di quel territorio.
Si tratta di temi che ritengo rilevanti, che vanno oltre il territorio ligure e che devono formare oggetto di una riflessione più ampia a livello nazionale.
Tonino Gozzi sostiene in sintesi che la crescita, attraverso la realizzazione di investimenti pubblici e privati, anche per mezzo di opere e infrastrutture deve rappresentare una “ossessione” e che tali investimenti sono realizzabili in tempi celeri con lo sfoltimento della burocrazia e la cultura del fare. Tutto ciò è possibile in modo trasparente e legale, senza prestare il fianco al malaffare, come dimostrato nel caso della ricostruzione del Ponte San Giorgio, che oggi rappresenta quello che viene definito il “Modello Genova”.
Sono assolutamente d’accordo con la visione di Gozzi.
Ritengo che prendere quel modello come esempio del fatto che snellire le procedure amministrative, affidare il compito della realizzazione delle opere a persone qualificate dotate del senso del fare, siano gli elementi su cui il nostro Paese deve ripartire per favorire investimenti infrastrutturali necessari allo sviluppo dei territori e dell’economia nazionale.
Di questo sviluppo ha sicuramente bisogno la Liguria e Genova, ma ne ha bisogno anche tutto il Paese.
Le opere infrastrutturali sono una leva fondamentale per la crescita, in termini economici, sociali e ambientali.
È con la realizzazione delle infrastrutture che può essere aumentata la produttività, innalzata la qualità di vita delle persone, ridotte le disuguaglianze e i divari territoriali, incrementata la sicurezza e la resilienza del Paese.
Secondo quanto emerge da una indagine di Banca d’Italia e dell’Agenzia della Coesione Territoriale, il tempo medio di attuazione delle opere infrastrutturali in Italia è pari a 4,5 anni, ma cresce progressivamente all’aumentare delle dimensioni progettuali. La durata di realizzazione sale a quasi 11 anni per le opere il cui valore supera i 5 milioni fino a raggiungere i 15,7 anni per progetti di oltre 100 milioni di euro.
Si tratta di tempistiche insostenibili, che non dipendono da barriere tecnologiche, e che non possiamo permetterci in un mondo che sta correndo per realizzare investimenti in tecnologie e infrastrutture necessarie alla competitività.
Le infrastrutture servono alle nostre aziende per rimanere agganciati alle filiere Europe ed internazionali in termini di efficienza e di costi.
E nel caso della Liguria e, in particolare, di Genova, opere come la Diga foranea e la Gronda devono essere messe a terra urgentemente per non essere tagliati fuori dalle nuove geografie mondiali: la Diga per consentire al Porto di Genova di continuare a svolgere la sua funzione di primo porto nazionale, di fronte ai radicali cambiamenti che stanno caratterizzando la logistica mondiale; e la Gronda autostradale per dotare il territorio di una infrastruttura efficiente, competitiva e sicura, in grado di servire sia il traffico metropolitano che passante sulle lunghe percorrenze.
In questo contesto il Modello Genova deve essere tenuto presente. E se i tempi record per la costruzione del Ponte San Giorgio sono dovuti alla non applicazione di regole ordinarie, come quelle sugli appalti o sulla valutazione di impatto ambientale, allora non dovremmo mettere in discussione l’esistenza di un “Modello Genova”, ma dovremmo semplificare e snellire quelle regole, che così come formulate non consentono al Paese di progredire al passo con i tempi e con le attuali esigenze, come la transizione ecologica che presuppone l’intermodalità nei trasporti e la generazione diffusa nella produzione energetica, la transizione digitale, i nuovi equilibri geopolitici, che stanno ridisegnando le dinamiche competitive a livello globale anche con riferimento ai trasporti di persone e merci e delle catene logistiche.
Ma le norme non bastano, serve una seria cultura del fare, capacità e competenze.
(* Delegato di Confindustria per i trasporti, la logistica e l’industria del turismo)