di ANTONIO GOZZI
Negli ultimi 30 anni l’Europa è certamente stata l’area economica del mondo più orientata allo sviluppo del libero mercato mondiale e al sostegno delle istituzioni internazionali che hanno il compito di favorirlo.
Ciò si deve ad una serie di ragioni culturali e pratiche. Dal punto di vista culturale l’affermarsi a livello mondiale di un orientamento, diventato quasi un’ideologia, favorevole sempre e comunque alla globalizzazione, ha visto le classi dirigenti europee sostenitrici convinte di questo approccio. Dal punto di vista pratico il sostegno è venuto perché da un lato i paesi nordici, per lo più con apparati industriali sempre più deboli, hanno sposato una filosofia mercatistica e consumeristica spinta, volta a favorire gli acquisti di beni al miglior prezzo in ogni parte del mondo; e dall’altro perché le due economie più industriali d’Europa, Germania ed Italia, hanno avuto ed hanno un modello di business spiccatamente orientato alle esportazioni e rivolto a quei mercati, specie asiatici, in forte crescita dimensionale e demografica.
Questa impostazione ha retto per molto tempo e anche i primi effetti della globalizzazione su ceti sociali e imprese ‘perdenti’ sono stati in qualche modo gestiti attraverso il ricco armamentario del welfare e degli ammortizzatori sociali europei.
L’ideologia della globalizzazione ha spinto verso un modello ‘affluente’ che ha esaltato i diritti più che i doveri, che ha fatto del consumo e dei consumatori il driver di ogni scelta politica, che ha trasformato la giusta esigenza della transizione energetica in una religione dogmatica ed estremistica capace solo di fissare obiettivi sempre più ambiziosi e irrealistici più che occuparsi dell’implementazione faticosa ed equilibrata del progetto.
In questo contesto, paradossalmente, l’industria manifatturiera, vera creatrice di ricchezza e progresso, è passata in secondo piano e vi sono stati autorevoli esponenti della Commissione che hanno teorizzato la non strategicità dell’industria specie di quella di base. Poca sensibilità alle esigenze dell’industria interna, lentezze estenuanti per l’assunzione di misure antidumping (più di due anni in Europa con procedure complicatissime contro sei mesi negli Usa), regolamenti cervellotici e insostenibili per le imprese, estremismo ambientalista ecc. hanno caratterizzato le politiche dell’Unione Europea negli ultimi anni, penalizzando gravemente le imprese europee e la loro competitività.
Ma le cose cambiano, e la velocità del cambiamento pone oggi l’Europa dinanzi ad una nuova situazione che genera a poco a poco nuove consapevolezze, e pone nuovi interrogativi.
Si fa strada, per fortuna, l’idea che la manifattura è un pilastro di tutte le economie, anche di quelle più avanzate. Nessun paese è divenuto mai grande consumando, bensì producendo, e per rimanere grandi è necessario, come tante volte abbiamo sostenuto da queste pagine, preservare filiere e saperi industriali. Se non si fa così, inesorabilmente, si dipenderà economicamente, tecnologicamente e strategicamente da altri.
Gli anni di ideologie mercatiste, di ambientalismo e finanziarizzazione estremi hanno finito per spiazzare l’Europa, che oggi si trova a fronteggiare un declino demografico, industriale e di competitività che sembra inarrestabile. In particolare abbiamo progressivamente trasferito know how e industrie verso l’Asia, mettendo i produttori di quell’area nella felice condizione di spingerci fuori mercato.
In particolare la Cina con il suo ruolo di superpotenza manifatturiera sta rivoluzionando i mercati globali mediante un’aggressiva strategia di esportazione di prodotti quali auto elettriche, pannelli solari, inverter, pale e turbine eoliche, batterie al litio, impianti industriali di base, a prezzi talmente competitivi da generare una grande preoccupazione in tutte le economie occidentali.
In diverse aree merceologiche vi è il rischio di una sovracapacità produttiva cinese che spingerà sempre di più quel paese a un modello basato sulle esportazioni a qualunque prezzo. La piena occupazione è in Cina un problema di ordine pubblico, perché non esistono gli ammortizzatori che da noi, fino ad oggi, hanno consentito di far fronte ai momenti negativi di mercato; in conseguenza di ciò il governo cinese sovvenziona la produzione interna in ogni modo possibile.
Quale è la risposta che a livello internazionale si da a questa aggressività industriale e commerciale cinese?
Riscontriamo, quasi ovunque, la corsa a tariffe e sussidi per cercare di salvaguardare le proprie industrie nazionali e di salvaguardare, in qualche modo, la sicurezza strategica che è legata a molte produzioni industriali, dai prodotti farmaceutici, all’acciaio, alla chimica, all’elettronica-informatica, al grande tema dell’intelligenza artificiale.
I grandi piani americani, predisposti dall’Amministrazione Biden, vanno in questa direzione e la massa di risorse finanziarie messa in campo dagli Usa supera di gran lunga ogni strumento e politica europea.
Per l’Europa si pongono scelte di fondo. È possibile continuare ad essere i più mercatisti e aperti in un mondo in cui gli unici ad essere globalisti ad oltranza sono i cinesi che vogliono piazzare le loro eccedenze produttive distruggendo i prezzi? È possibile perseverare in debolissime politiche di protezione della propria industria quando le più importanti aree del mondo sostengono le loro imprese con giganteschi aiuti, specie nel difficile percorso della transizione energetica? È possibile continuare ad avere un approccio regolatorio e ipercomplesso delle burocrazie guardiane invece di favorire in ogni modo la libera iniziativa imprenditoriale?
Il dilemma è tutto qui. L’Europa con molta umiltà deve chiedersi cosa è che non ha funzionato, e comprendere che non sarà mai più il centro del mondo che dice a tutti cosa devono fare, ma dovrà guadagnarsi un futuro con tanta fatica e tanto dolore.
Questioni economiche, sociali e di sicurezza strategica si intrecciano qui e ora inesorabilmente. L’approccio culturale deve cambiare altrimenti siamo spacciati.