di MATTEO GERBONI
Si è buttata in un mare in tempesta. Senza indugio. Si è svegliata in prima linea, con il suo sorriso, la sua forza, il suo coraggio. Il suo impegno incondizionato, la sua immensa passione. Il suo altruismo. E un grande senso di responsabilità.
Silvia Misley, 25 anni, chiavarese, laurea nel luglio 2019, abilitata ‘per decreto’, è una delle reclute dell’‘esercito di Ippocrate’.
Il ventisei marzo l’iscrizione d’ufficio all’albo dei medici, ad inizio aprile la prima visita a casa di un paziente affetto da Covid o con sintomi sospetti. Con la tuta monouso, i guanti, la visiera, la mascherina.
“Era un venerdì sera – ricorda – quando ho deciso di inviare il mio scarno curriculum alla Asl 4 per partecipare al bando e entrare nel Gruppo strutturato di assistenza territoriale. Sapevo che cercavano medici, alcuni miei compagni di Università si erano già fatti avanti. La mattina dopo, era un sabato, mi hanno subito chiamata, il lunedì ho sostenuto il colloquio, la visita e ho iniziato. È stato tutto talmente rapido, che quasi non me ne sono neppure resa conto”.
Più lungo il processo che aveva preceduto l’invio di quella sofferta email. “Ho pensato per una settimana intera – sorride Silvia – da una parte la volontà di dare il mio contributo, sentivo l’obbligo, come medico, di fare la mia parte, per quanto piccola. Dall’altra, mille dubbi: sul pericolo di rimanere contagiata, di trasferire il virus ai miei genitori, sulle reali capacità di essere all’altezza del compito, sulla mia carriera futura. Ma alla fine ha prevalso il senso del dovere. In quei giorni mi sono letta molte volte la pergamena di laurea. Ero sola, nella mia stanza. Ricordo che quel venerdì continuavo a chiedermi: come faccio a tradire queste parole? Ho acceso il computer e ho schiacciato il tasto invio”.
Ogni giorno, da inizio aprile, entra nella casa di chi sta lottando con il nemico invisibile: assomiglia tanto a un extraterrestre, ma in realtà è una sorta di angelo: “Siamo in due, un medico e un infermiere. La segnalazione, spesso, arriva dal medico di famiglia quando sospetta che un suo paziente abbia il Covid. Si fa una prima verifica e poi mette in moto l’unità che svolge una serie di azioni, dal monitoraggio telefonico fatto anche più volte al giorno, fino alla visita a domicilio per verificare parametri come la pressione, la saturazione e l’auscultazione dei polmoni. Eseguiamo a tutti il tampone. L’obiettivo è intercettare precocemente la malattia per impedire che arrivi la complicazione della polmonite interstiziale bilaterale che conduce la persona al ricovero in ospedale, e mantenere la situazione sotto controllo. Facciamo mediamente dieci visite domiciliari al giorno, dalle 8 alle 20. Siamo un gruppo molto unito e affiatato. Mi trovo molto bene con tutti i miei colleghi, siamo una bella squadra”.
Silvia (nella foto a destra) porta a casa dei malati una cura, ma anche un antidoto alla solitudine, dimostrando l’importanza della medicina sul territorio. Purtroppo la politica negli ultimi anni l’ha ridimensionata, riducendola a burocratica routine. Invece l’emergenza Covid ha evidenziato come probabilmente si debba ripartire dall’assistenza sulla porta di casa. Dal coraggio di medici e infermieri. E dalla loro grande dose di umanità.
“Ho trovato tante persone anziane, sole ed impaurite. L’accoglienza, in molti casi, è stata commovente, ci hanno visto come dei salvatori. La gratitudine di queste persone mi resterà sempre nel cuore. Si sono sentiti accuditi, ascoltati. Molti ripetevano: ‘Andrà come andrà, ma almeno qualcuno è venuto. Per noi è già molto. È già tutto’. C’era chi aveva appena perso un marito, un fratello, un amico. Spesso ci siamo trovati a piangere con loro. Non sapevano nulla per il funerale, non avevano più notizie del familiare finito in ospedale”.
È stato come scoprire all’improvviso il mondo reale dopo averlo studiato per sei anni sui libri. Scendi in campo, devi decidere in prima persona. Accetti le tue imperfezioni. “Il primo impatto è stato duro, all’inizio pensavo di non essere pronta, ma neppure credibile, io così giovane davanti a un paziente che giocava una partita così importante. Ma davanti a loro non ho mai avuto timore, la paura sale quando sei sola. Quando l’emozione travolge la ragione. Di solito, chi è fresco di laurea inizia con qualche sostituzione ai medici di base, un po’ di turni come guardia medica o in una casa di riposo. Molti di noi, invece, si sono trovati a combattere un virus pericoloso e ancora sconosciuto. Ma oggi posso dire che questa ‘prova del fuoco’ mi ha cambiata, sono molto più sicura di me e ho capito che so esercitare la professione del medico. So di dover crescere ancora tanto, fare esperienze, commettere degli errori, ma ora mi sento pronta”.
Confrontarsi ogni giorno con il dolore è complicato, l’aspetto comunicativo assume un valore fondamentale e non è sempre facile da gestire: “Purtroppo, in alcune occasioni, ci troviamo a dover dare delle notizie negative e quindi dobbiamo pesare le parole molto attentamente perché il messaggio venga trasmesso nel modo più umano possibile. In questo periodo in cui il contatto visivo e fisico sono, per ovvi motivi, ridotti al minimo, è diventato veramente difficile parlare con i familiari senza poter dare loro conforto con quei gesti che fanno parte degli strumenti di lavoro. Per certi aspetti è come se ci avessero tolto lo stetoscopio. Qualche settimana fa sono stata a visitare una signora anziana che aveva il marito in ospedale, quando sono tornata per il secondo controllo purtroppo lui era mancato e le sue lacrime mi hanno fatto male. È stata dura, ho sofferto, osservando il suo dolore”.
In queste settimane Silvia ha imparato a fare diagnosi, dare terapie, ma soprattutto a parlare con gli occhi: “Sono l’unica cosa che i pazienti vedono di me. E gli occhi non mentono mai. Si dice che siano lo specchio dell’anima. Una delle cose peggiori del Covid è che ti isola. Ti lascia solo ad affrontare la situazione senza poter fissare lo sguardo negli occhi delle persone a te care, senza poter afferrare la loro mano. In molte visite ho cercato anche di offrire uno sguardo di vicinanza attraverso il visore di plastica. Uno sguardo che ha voluto significare ‘sono una persona come te e ti sono vicina. Ti stringo la mano, anche se attraverso uno spesso guanto di gomma’. Spesso bisogna alzare la voce dietro la maschera. Invece quando lasci parlare gli occhi, resti in silenzio. E in quegli occhi di tante persone sofferenti mi sono specchiata e ogni volta mi sono detta che era giusto essere in quel mare in tempesta”.
Silvia diventerà un bravo medico, un medico che sta dalla parte dei sentimenti. Un medico capace di credere ancora nella parola umanità.