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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

Pietro Righetti e il 25 aprile più amaro di tutti

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di GIORGIO ‘GETTO’ VIARENGO *

La festa più importante del nostro calendario civile quest’anno sarà fortemente ridimensionata. Il Coronavirus e le restrizioni per contenerlo non permetteranno le tradizionali cerimonie, ma l’impegno per la memoria dei valori della Resistenza ci obbliga in ogni modo ad essere presenti con la riflessione e la partecipazione a questa ricorrenza.

Lo spunto per ragionare sul valore del 25 aprile è rintracciabile in diverse cronache di misfatti e massacri compiuti dai nazifascisti nel nostro territorio chiavarese. Qui una domanda: ma qual era la tensione e l’attesa per la tanto sospirata fine del conflitto? La fine della guerra era davvero molto attesa, com’è verificabile in due date fondamentali: la prima è il 25 luglio del 1943.

Nel tardo pomeriggio si diffonde in città la notizia dell’arresto di Benito Mussolini. Il prefetto di Genova telegrafa al sindaco di Chiavari di affiggere un manifesto, i cui passaggi più forti riguardano la risposta popolare alla notizia dell’arresto del duce. Così si legge sul foglio appena diffuso: “Non è il momento di abbandonarsi a dimostrazioni che non saranno tollerate”.

I chiavaresi corrono da Defilla per ascoltare la radio amplificata da un megafono, molti si accalcano in piazza del mercato, davanti alla casa del Fascio deserta e silenziosa: la guerra è finita? Non sarà così.

Arriverà, nell’angoscia, l’8 settembre. In piazza Carlo Alberto (oggi piazza Mazzini) il presidio armato dell’esercito caratterizzava la quotidianità del nostro centro storico. La firma dell’Armistizio giunge come la tramontana, improvvisa e turbolenta; tutta Chiavari è in piazza, in molti gridano che la guerra è finita, i più facinorosi salgono alla Casa del Fascio, spalancano le finestre, volano suppellettili e gagliardetti, piomba a terra un busto in bronzo del duce. Un gruppo di giovani sostituisce la scritta toponomastica in piazza delle Carrozze, fino ad allora dedicata a Costanzo Ciano, con una in cui si legge a chiare lettere: ‘Piazza Giacomo Matteotti’.

Durerà poco, la delusione ritorna col suo morso lacerante. Pochi giorni dopo, dalle pagine del settimanale cattolico ‘La Sveglia’ si annuncia la rifondazione del partito fascista, ora repubblicano: il nuovo direttorio è presieduto da Vito Spiotta. Il giornale cattolico viene chiuso e sostituito da ‘Fiamma Repubblicana’, un settimanale che caratterizzerà tutto il periodo fino alla fine delle ostilità, diffondendo le criminali azioni dei nazifascisti nel Tigullio.

Nei giorni successivi i giovani italiani si troveranno davanti a un drammatico bivio: entrare nel nuovo esercito fascista repubblicano o salire in montagna per lottare e liberare il nostro Paese? Il centro di reclutamento, come scrive Spiotta su ‘Fiamma’, si trova in corso Garibaldi; in diversi si arruolano, ma molti giovani della neonata Resistenza salgono in ordine sparso verso diverse località dove si avvieranno le prime formazioni organizzate, tra Cichero e le colline di Cavi di Lavagna.

La lotta si protrarrà per venti mesi, fino alla vittoria di quelli che combattono dalla parte giusta, quei giovani che liberano l’intero Paese, giovani come i soldati Alleati che scendono dal Bracco con le loro Jeep.

A questo punto della storia, siamo ad aprile del 1945, è bene rileggere alcuni spunti per capire meglio lo svolgersi dei fatti.

Domenica 22 aprile 1945 esce l’ultimo numero di ‘Fiamma Repubblicana’; Vito Spiotta crede ancora nella vittoria del nazifascismo, il suo tono è immutato, spietato e arrogante. In quelle ore è già attiva l’insurrezione generale, tutto si sta predisponendo per l’attacco finale delle formazioni partigiane.

Il 25 aprile lo rileggiamo in alcune righe nel diario scritto da un chiavarese: “Mercoledì 25, a Chiavari è rimasto un nucleo di Alpini e Tedeschi con l’ordine di fare resistenza. Si teme un bombardamento. Coprifuoco dal mezzogiorno al giorno dopo. Il Vescovo è partito al mattino per parlare con i partigiani a Lavagna ed esortarli a non attaccare”.

Gli uomini della Coduri attaccano, partono colpi di mortaio dai bunker delle Grazie, gli Alleati superano il ponte sull’Entella, ‘Saetta’ e la Divisione Longhi dilagano in città proseguendo verso Zoagli, Rapallo, Santa e giungendo sino alla Ruta. Adesso la guerra è finita davvero!

Non così il dolore: in questa data di grande gioia e festa, c’è ancora chi muore. Pietro Righetti, un giovane chiavarese che non era mai entrato nella storia, può farlo solo oggi. Nato a Chiavari il 29 gennaio del 1926 in Vico della Torre al numero cinque, nell’estate del 1944 non si è ancora presentato per la chiamata nell’esercito Repubblicano e non ha nessuna intenzione di farlo, ma viene arrestato in una retata organizzata dagli uomini di Spiotta.

Troviamo traccia del suo arresto nella sentenza che riguarda proprio il capo della Brigata Nera chiavarese: “Sequestro di persona a danno di giovani rimasti sconosciuti del chiavarese e successiva loro consegna alle SS germaniche che li inviarono ai campi di concentramento in Germania. Fatto avvenuto in Chiavari il 1° luglio del 1944”.

L’unico superstite di quella retata è Mingo Canepa, che in un’intervista mi confermò che il gruppo era stato fermato e condotto al carcere di Chiavari. Quel giorno doveva avvenire la consegna ai tedeschi in piazza Carlo Alberto, ma Mingo riuscì rocambolescamente a fuggire.

Pietro Righetti invece è condotto a Bolzano, dove viene immatricolato col numero 3059. Il 14 dicembre parte per il campo di Mauthausen dove arriva il 19, matricola 114084. Nel campo gli viene cucito un triangolo rosso sulla giacca che lo classifica come prigioniero politico, arrestato per motivi di sicurezza ‘Schutz Häftling’. Questo inquadramento lo destina al campo di Gusen dove cessa di vivere a diciannove anni proprio il 25 aprile del 1945.

La riflessione finale è semplice, la indica la Storia e questa storia la conferma: la Resistenza liberò il nostro Paese e rese liberi gli italiani ma non andò così per Righetti Pietro. Lui non esultò nel giorno della Liberazione: era morto in un campo di sterminio nazifascista.

(* Membro dell’Anpi e studioso di storia locale)

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