di ALBERTO BRUZZONE
L’icona del francobollo sulla scrivania dell’iMac continuava a non animarsi. Nessuna traccia del circoletto rosso che indicasse un messaggio in arrivo.
Non c’era proprio verso.
«Cazzo, ma quanto ci mette», disse a mezza voce Dan, credendo di non essere sentito da nessuno.
Invece, il collega Peter, che lo conosceva da un decennio e avvertiva ogni suo minimo sbalzo d’umore quasi fosse suo fratello gemello, percepì lo stato d’agitazione del suo diretto superiore.
Dan, al secolo Daniel Handwerker, non era soltanto il nipote di Nathan, quell’immigrato di origini polacche che ai primi del Novecento arrivò negli Stati Uniti e s’inventò l’hot dog, ma era soprattutto il capo della redazione esteri del New York Times. Il responsabile del settore più influente del giornale più influente del pianeta, destinatario, con i suoi giornalisti e con inchieste su inchieste, di parecchie decine di premi Pulitzer.
Un giornalista con la G maiuscola, insomma.
Ma ora era lì, davanti al suo schermo, a tribolare come l’ultimo praticante dell’ultima gazzetta del Midwest.
Erano le 22.50.
Ma quella foto del reporter inviato in Siria, per chiudere il pezzo a pagina 50 dell’edizione successiva, proprio non voleva arrivare. Non era tanto per la deadline della tipografia, ancora abbastanza lontana, quanto per l’appuntamento che aveva non appena fosse uscito dal giornale.
Per quello Dan friggeva. Continuava a cliccare il tasto invia e ricevi su Mail, ma niente da fare. Non è che a Scott Sullivan, che tutti i più vecchi al Times chiamavano Scotty il Reporter, era successo qualcosa? Era il caso di contattarlo sul satellitare? L’articolo in questione, a firma di Franklyn W. Fisher, parlava delle tristissime condizioni dei bambini siriani nei campi profughi. Spesso restavano senza cibo, senza medicine. Finanche senz’acqua. Era un racconto toccante, che Scotty aveva condito con alcune immagini eccezionali. Ma il giudizio, non essendo ancora giunte in redazione, era confinato al solo parere del loro autore.
«Vai, rimango io. Vai, manca solo la foto», gli disse Peter. Sapeva perfettamente che Dan aveva l’appuntamento più importante della sua vita, e non poteva proprio perderselo. Di incontri di spessore ne aveva vissuti parecchi, nella sua esistenza: interviste a politici di livello internazionale, missioni all’estero sui principali fronti di guerra, persino, una volta, un a tu per tu con un agente della Cia che aveva clamorosamente violato il protocollo di sicurezza, in aperta polemica con la base di Langley.
Quand’era uscito il pezzo, la casa e l’ufficio di Dan erano stati rivoltati come calzini, per capire chi cavolo avesse parlato, dove come quando e perché.
Aveva sempre vissuto in prima linea. Poi, si era ritirato dietro la scrivania, in un ruolo di capo niente affatto comodo. Anzi, probabilmente la sedia gli fumava da sotto al culo anche e più, rispetto a quando non aveva responsabilità gestionali, a quando rispondeva solo per se stesso, a quando se ne andava in giro in cerca di scoop.
Una carriera elettrica ed elettrizzante, insomma.
Ma niente al cospetto di quello che lo attendeva lì, adesso, quella notte stessa, uscito dalla hall del grattacielo di Renzo Piano sull’Ottava Avenue.
Tirò fuori dalla tasca 50 centesimi, si alzò dalla sua postazione, attraversò il corridoio lasciato aperto dalle varie scrivanie in quell’avveniristico open space e andò alla macchinetta.
Il caffè era nero e bollente, come piaceva a lui. Intanto ci voleva, un bel po’ di caffeina. E poi, chi avrebbe mai dormito quella sera? Nottata in bianco, lo aveva messo perfettamente in conto.
Controllò il display del suo Blackberry. Nessuna chiamata, nessun messaggio. L’appuntamento era fissato. Sapeva il dove, sapeva come arrivarci, solo il quando era ignoto. Poteva essere tra cinque minuti, due ore, all’alba. Cazzo, ma proprio stasera quella foto era in ritardo? Con tutte le volte che aveva chiuso il giornale anche più tardi, ed era filato tutto liscio. Certo, ma quelle volte non aveva avuto, subito dopo, l’incontro più importante della sua vita.
Per la serie, la sfiga ci vede benissimo.
Dai, fottuto di uno Scotty. Se sei vivo, batti un colpo.
Peter ci provò per la terza volta: «Resto io Dan, è troppo importante che tu vada». Ma per la terza volta fu rinnegato.
Come Gesù Cristo. Il Messia del New York Times.
A vederselo raffigurato così, Peter Becker – per tutti Pety The Night Owl, il nottambulo – puttaniere e giocatore incallito, c’era da spanciarsi dalle risate.
Dan invece era il capo. E, come tutti i capi, era: cocciuto, testardo, stressato, malfidato, incazzoso, perennemente restio a lasciare il comando. Però era anche estremamente sincero, onesto e di cuore.
Non come tutti i capi.
Tornò a sedersi alla scrivania. Aspettava e leggeva le ultime agenzie. Beveva il caffè e ruttava. Quando, a un tratto, il circoletto rosso con il numero 1 dentro si accese in alto a destra del francobollo.
«Speriamo che sia quella cazzo di foto». Aprì il software, controllò il mittente: Scotty Press 2. Finalmente.
«Diavolo di uno Scotty, ce l’hai fatta anche stavolta», disse questa volta a gran voce.
Erano, in effetti, scatti eccezionali. Di una schiettezza impressionante. Splendidi nel loro essere crudi, per certi versi spietati. Peccato doverne mettere una sola in pagina. Ma le altre, quasi certamente, sarebbero diventate una photogallery, quando non addirittura una mostra, in una delle tante gallerie di New York dove Scotty, che propriamente scarso non era, aveva esposto negli anni. Riuscendo sempre, sino a questo momento, a portare a casa la pelle.
Dan guardò l’ora: le 23.50. Buttò la foto dentro al sistema editoriale, la assegnò a pagina 50, la tagliò, compilò la didascalia, cliccò save e la giornata era finita. Quella parte di giornata. Adesso se ne poteva anche andare.
Salutò Pety, con il ritornello di tutte le sere da dieci anni a quella parte: «Pety, a casa sicuri».
E lui: «Sicuri domani», lasciando intendere che, anche quella notte, chissà dove sarebbe andato a devastarsi. Dan, invece, mai come in quell’occasione sarebbe dovuto rimanere serio. E sobrio.
Prese su la giacca, si mise lo zaino sulle spalle (che sempre aveva detestato la ventiquattr’ore per non voler sembrare uno di quegli stronzi di Wall Street), si allentò il nodo della cravatta, scese le scale dell’open space a perdifiato, s’infilò nel primo ascensore libero e, in pochi secondi, si ritrovò nella hall.
Uscì sull’Ottava e pensò che questa volta non poteva prendersela comoda. Le altre sere, quando finiva il lavoro e le temperature lo permettevano, per smaltire la tensione e far scendere l’adrenalina di certe giornate, andava a piedi a prendere la metropolitana a Grand Central. Vedeva le insegne ormai spente di Buddy’s di fronte al giornale, tirava su sino al Port Authority Bus Terminal, girava a destra e s’incamminava sulla 42nd.
In pochi metri, notava sempre il contrasto tra il luccichio accecante di Times Square e quel suo traffico infernale e, subito dopo, la pace e il silenzio di Bryant Park, la forma arcuata del Gracie Building che tanto gli piaceva, la guglia illuminata del Chrysler, laggiù a est. Se non avesse fatto il giornalista, avrebbe fatto l’architetto. Ma intanto era grato a suo nonno.
Era per merito suo, se adesso la famiglia Handwerker poteva vivere il sogno americano. Suo e di una salsiccia calda dentro un panino: ricetta che il vecchio Nathan si era inventato per primo, nel 1916, sulla spiaggia di Coney Island.
Di solito, giunto alla Grand Central, prendeva la numero 6, risaliva Manhattan e scendeva a Cypress Avenue. Stava al 50, in una di quelle villette a schiera all’incrocio con la 140th, con la casa su due piani, un bel giardino davanti e il posto privato per l’auto.
Mott Haven, parte sud del Bronx, era molto migliorata negli ultimi anni, sino a diventare una zona residenziale. Ora anche tanti colletti bianchi venivano ad abitarci, a fare compagnia ai vecchi residenti: afroamericani, portoricani, uomini e donne della working class. Pure i benestanti lasciavano la sempre più proibitiva Manhattan scegliendo un luogo più tranquillo. Dove sentirsi fuori dalla città, pur restando a due passi dalla città.
A un certo punto, Dan sentì il Blackberry vibrargli nella tasca interna della giacca. Era un messaggio. Aprì Whatsapp e lesse: “Vieni subito, manca poco. Fai presto”. Non era momento di passeggiatina notturna, né di metropolitana.
Alzò il braccio e fermò un Cab sulla 42th. La Lincoln gialla accostò verso il marciapiede, Dan salì e diede l’indirizzo: 50 East 142nd, Mott Haven. Si posò sul sedile nero in similpelle dell’auto e digitò la risposta al messaggio: “Sono in taxi, arrivo tra poco”.
La macchina frecciava sulla 42th. La percorse tutta in direzione est, poi prese la Fdr Drive, passò sotto al tunnel delle Nazioni Unite e, costeggiando l’East River, si lasciò indietro Sutton Place, Lenox Hill, il Queensboro Bridge, la Roosevelt Island, Yorkville e East Harlem.
La New York più ricca e quella più povera a meno di venti minuti in auto, nella città dai mille eterni contrasti.
Giunto sull’RFK Bridge, mentre le ultime luci della metropoli si diradavano e gli imponenti piloni del trittico di ponti si specchiavano nell’acqua calma alla confluenza dei fiumi, pensò che da quella notte la sua esistenza non sarebbe stata più la stessa. Che sarebbe cambiata per sempre. Ma anche per quello, in fondo, aveva smesso di fare l’inviato e si era sistemato stabilmente a New York.
Ma dove cavolo stava andando?
Di chi era quel messaggio?
Che cosa c’era a pochi isolati da casa sua?
Chi lo aspettava in quella notte di inizio settimana?
Per fortuna non c’era traffico, almeno quello. Il tassista si fermò di fronte all’imponente edificio di mattoni color marrone scuro. Pigiò stop sul tassametro.
«Sono 44,50», disse.
Dan tirò fuori 50 dollari dallo zaino: «Tenga pure il resto, e grazie. Buona notte».
Dentro quel palazzone, salì le scale a due a due per arrivare al terzo piano. Avrebbe fatto prima che con l’ascensore. E poi doveva muoversi, non poteva aspettare davanti a una porta chiusa, a fissare una lucina che lampeggiava. Sarebbe impazzito definitivamente.
Cercò con ansia e trepidazione la stanza 50. La trovò con la porta spalancata. Dentro non c’era nessuno.
«Cazzo», esclamò. «E ora?».
Una giovane presenza, con una cuffia bianca sulla testa e un lungo camice che le lasciava appena scoperte le sottili caviglie, lo prese alle spalle.
«Non c’è più. Mi segua, l’accompagno io. E non si preoccupi, che non è in ritardo».
Dan guardò l’orologio: 00.50. Si passò il dorso della mano sulla fronte, per asciugarsi un minimo il sudore, e andò dietro alla ragazza. Arrivarono davanti a una porta antifuoco. Lei compose 50 sul tastierino numerico e un meccanismo elettrico fece aprire l’uscio.
«Lei conti 50 passi da ora e sarà arrivato», le disse con un sorriso luminoso e fiducioso.
Era vero.
In sala parto la sua giovane moglie stava per dare alla luce il loro primo figlio. Aveva 37 anni e l’aveva conosciuta a una galleria d’arte, in uno dei rari momenti di pausa dal lavoro. Se n’era subito innamorato, perdutamente.
Marlene era graziosa, gentile, estremamente colta. Ma anche incredibilmente bella. E non gli aveva mai fatto pesare la differenza d’età: 37 lei, 50 lui.
Non era mai troppo tardi per avere il primo figlio. La donna lo vide e gli lanciò uno sguardo che era tutta un’intesa. «Sono qui, sono con te», disse lui.
All’1.50 il piccolo Andy vide la luce. L’infermiera, mentre preparava la bilancia e tutto l’occorrente per il primo bagnetto, lo mise in braccio al padre, ancora avvolto in fasce.
Eccola qui, l’emozione più grande della sua vita.
Pesava 3 chili e 50. Al che, si rese conto – lui che era un osservatore sempre attento e perspicace, sarà stato anche per deformazione professionale – che un’infinità di volte, in quella notte unica, gli era apparso davanti il numero 50.
Il numero più perfetto di tutti, secondo gli antichi greci: la somma dei quadrati dei lati del triangolo di Pitagora, quando per la prima volta venne enunciato (9+16+25).
Il simbolo della vita che continua e va avanti.
Mandò un messaggio al Night Owl: “Stanotte bevi anche per me”.
Il pianto innocente di Andy, contrastava con il pianto disperato dei bambini dei campi profughi, nelle fotografie di Scotty.
È tutto un gioco di contrasti, pensò: la vita, il mondo, quest’incredibile città. Qualche giorno dopo, decise di donare 50.000 dollari, in forma strettamente anonima, alla Amazing Grace Children’s Home.
E Andy, da allora e per sempre, fu Fifty.
Cinquanta, come i numeri di Piazza Levante. Il fratellino glocal di Fifty, Dan, Scotty e di tutti gli altri.
Un caro augurio.