di ANTONIO GOZZI
La crisi pandemica ha fatto riscoprire, non solo in Italia, il ruolo dello Stato. Cure sanitarie, vaccinazioni, interventi economici a sostegno delle economie e delle categorie più colpite hanno mostrato quanto insostituibile sia la funzione pubblica in determinate situazioni.
In occidente si è aperto un dibattito politico ed economico nel quale, dopo anni in cui liberismo ed economia di mercato avevano avuto il sopravvento, nuove tendenze stataliste si sono palesate, talvolta in un confuso intreccio di ideologismi in cui salute, climate change, contrasto alle crescenti diseguaglianze sociali sono diventati i nuovi obiettivi della statualità.
Il globalismo non governato e i suoi effetti indesiderati su economie e categorie deboli chiamano inevitabilmente statualità.
Se ci concentriamo sul nostro Paese dobbiamo ammettere che l’Italia repubblicana ha sempre avuto uno Stato debole e una Pubblica Amministrazione non all’altezza di quella delle altre grandi nazioni europee. Siamo entrati tra i grandi del mondo (siamo ancora tra le prime dieci nazioni per PIL, la settima come valore della manifattura) grazie alla prorompente vitalità della nostra economia e grazie alla forza della nostra industria manifatturiera, che hanno retto il Paese anche nei momenti più difficili, come autorevolmente ha affermato il Presidente Draghi qualche giorno fa nel corso della visita al distretto della ceramica di Sassuolo e Modena.
Molte volte mi sono chiesto: cosa sarebbe l’Italia se avessimo una pubblica amministrazione efficiente e autorevole come quella francese, tedesca o inglese? Sicuramente una nazione ancora più importante e moderna, nella quale la forza delle imprese, della manifattura, dello style design e delle enormi ricchezze culturali e turistiche di cui disponiamo potrebbero esprimere al massimo le loro potenzialità. Statualità e modernizzazione sono infatti per me due termini inscindibili.
Lo Stato debole, in Italia, è anche il portato della storica diffidenza nei confronti dei processi di modernizzazione e di uno Stato forte che ha caratterizzato le due culture politiche dominanti nel dopoguerra, quella cattolica e quella comunista, universalistiche entrambe e quindi scarsamente interessate al binomio Nazione-Stato.
Vi sono stati vasti settori dei cattolici e della loro espressione politica, la DC, condizionati dal legame con la Chiesa e dal fatto che l’unità nazionale fosse nata contro lo Stato pontificio. La sinistra comunista da parte sua è stata fortemente condizionata, oltre che dai suoi legami internazionali con l’URSS, anche dalla paura verso ogni forma di autorità centrale forte dopo l’esperienza fascista.
La stessa carta costituzionale è stata, inevitabilmente, influenzata e condizionata da questi sentimenti e dal trauma dell’esperienza fascista e, come abbiamo sperimentato in più di settanta anni di vita repubblicana, essendo tutta concentrata sul primato parlamentare, non ha favorito il dispiegarsi a pieno di una democrazia governante. Oggi la nostra Costituzione necessita di un intervento di importante manutenzione ma contro di esso strillano e si oppongono i demagoghi della “costituzione più bella del mondo”.
L’espressione più evidente della diffidenza e contrarietà nei confronti dello Stato forte e della necessità di modernizzare il Paese di cui si è detto sopra si è avuta contro il primo vero tentativo di modernizzazione dell’Italia: il centro-sinistra di Nenni e Fanfani, con l’ingresso del Partito Socialista Italiano al governo del Paese e con la ricerca della ‘stanza dei bottoni’ e di una statualità autorevole e democratica.
Destra democristiana da una parte ed estremismo comunista e sindacale dall’altra furono i principali nemici della più importante espressione di politica riformista mai tentata nel nostro Paese. Questa opposizione si scaricò da un lato contro le riforme (energia elettrica, scuola, sanità) viste alternativamente come troppo avanzate o come sempre insufficienti; e dall’altro contro la politica dei redditi, avverso alla quale l’estremismo comunista e sindacale coniarono termini che nessuno ricorda mai, come “il salario variabile indipendente”. Era il tempo in cui i socialisti con Nenni e Giolitti sostenevano che per le classi popolari erano più importanti una scuola e una sanità migliori piuttosto che qualche lira di salario in più.
Modernizzazione e statualità autorevole sono rimasti così gli handicap principali dell’Italia repubblicana.
Per moltissimi anni l’intellighenzia italiana ha avuto timore o addirittura ribrezzo a declinare apertamente l’espressione ‘nazione’ e quella di ‘interessi nazionali’, e c’è voluto il presidente Ciampi con la sua autorevolezza democratica per ripristinare la legittimità della parola Patria e del culto del tricolore al di fuori delle partite della nazionale di calcio. C’è qualcuno che ancora oggi polemizza contro la divisa di un generale degli alpini, e lo sport nazionale è rimasto quello degli italiani che parlano male dell’Italia.
C’è però un elemento positivo che non va sottaciuto, e che può rappresentare oggi la base più importante su cui ricostruire il Paese in era di PNRR (Piano Nazionale di Ricostruzione e Resilienza).
Nonostante le barriere culturali e gli ostacoli di cui si è detto, anche nell’Italia repubblicana è cresciuto, in più luoghi, un apparato strutturale d’eccellenza e impermeabile alle differenti stagioni politiche. La differenza del caso italiano rispetto alle altre importanti nazioni democratiche del mondo è che questa eccellenza non è diffusa a tutta la PA ma si concentra soltanto in alcune importanti agenzie e tecnostrutture.
Banca d’Italia, Farnesina, Tesoro e Ragioneria generale dello Stato, Carabinieri, Consiglieri di Stato prestati alla funzione di governo centrale nei Ministeri e a Palazzo Chigi sono le tecnostrutture che hanno retto con i loro uomini il peso dello Stato anche nei momenti più difficili e più bui della Repubblica.
Gli esempi sono innumerevoli.
Importanti presidenti della Repubblica sono provenuti dalla Banca d’Italia; il terrorismo più virulento dell’Occidente è stato sconfitto militarmente da un generale dei carabinieri; la Farnesina ha tenuta dritta la barra della nostra politica estera atlantista, europeista e mediterranea anche nei momenti politici più confusi; il Tesoro e la Ragioneria generale dello Stato con l’aiuto della BCE sono riusciti a gestire un debito pubblico molto grande, la cui riduzione sarà una delle grandi sfide dei prossimi anni.
L’eccezionalità è stata non soltanto nella bravura tecnica e culturale di questi uomini e donne, ma soprattutto il fatto che costoro abbiano accettato di servire lo Stato per retribuzioni almeno quattro o cinque volte inferiori a quelle di equivalenti ruoli nel settore privato.
L’ipocrisia al riguardo regna sovrana, e le culture populiste ci hanno sguazzato.
Nella Pubblica Amministrazione, scuola compresa, non si può parlare di premio al merito senza scatenare le reazioni incontrollate dei populisti e di una burocrazia sindacale volta soltanto all’autoperpetuazione. E così, contrariamente ad ogni principio di razionalità, chi lavora tanto e bene viene pagato poco quanto il fannullone e, nella stragrande maggioranza dei casi, le progressioni di carriera avvengono solo per anzianità.
Lo Stato in Italia fa poco o niente per trattenere i migliori. Spesso non solo la loro retribuzione ma anche il loro status sono completamente inadeguati al ruolo che ricoprono. Basta girare per i ministeri e si è colpiti molto spesso ad esempio dalla modestia degli uffici in cui questi uomini e queste donne lavorano.
Il decoro e per certi versi la solennità dei luoghi fanno parte dell’immagine e parlano dell’autorevolezza dello Stato.
Il governo Draghi ha bisogno degli uomini delle tecnostrutture di eccellenza del Paese perché è su di loro che deve fare affidamento per riuscire a svolgere un lavoro immane in un cortissimo lasso di tempo. Riforme essenziali, non fatte per anni, sono la condizione per accedere ai fondi del Recovery. Il fallimento di questo governo non sarebbe soltanto il fallimento di Draghi ma dell’Italia ed è per questo che tutti devono impegnarsi perché l’esperimento riesca.
Tra le riforme essenziali da fare c’è anche quella della PA. Certamente digitalizzazione e assunzioni di giovani sono una priorità. Ma una vera riforma deve contenere anche principi e pratiche di premio al merito e il governo Draghi non può sottrarsi a questo impegno.
Se così sarà, e lo auspichiamo fortemente, vedrete che molti giovani formati bene dall’Università italiana non migreranno più all’estero, e decideranno di servire lo Stato con convinzione come avviene nelle nazioni più avanzate del mondo.