Dici Zucchi e pensi subito: ‘i falegnami’. Associazione logica se cognome e mestiere vanno a braccetto dal 1849. Oggi nel laboratorio di San Terenziano, a Leivi, lavorano gomito a gomito tre generazioni: Elio, il figlio Dario – titolare dell’azienda – e il nipote Federico, 27 anni (nella foto).
Tutto, però, comincia grazie a Ermenegildo: originario di Crema, apre la sua bottega da bancâ a Chiavari, nel quartiere di Rupinaro, dopo aver ottenuto la ‘licenza assoluta dal Militare Servizio di S.M. il re di Sardegna’. Attività che prosegue a gonfie vele, ambientamento nel Tigullio perfetto come dimostrano i 25 figli – molti purtroppo muoiono in giovane età – che gli danno una mano “costruendo gabbie per uccelli”, ricorda Elio. L’ultimogenito di questo esercito di falegnami, Pace Paolo, è colui che manda avanti la tradizione di famiglia anche dopo la scomparsa del papà, nel 1938. “Al mattino usciva di casa con sei acciughe sotto sale, senza sbatterle, mezzo fiasco di vino e una pagnotta”. Altri tempi che non fanno sbiadire il rosso vivo della passione per il legno. Scalpello, raspa, pialletto e martello, sembrano un prolungamento naturale anche delle mani di Pietro (nella foto sotto), figlio di Pace Paolo: i suoi mobili sono come opere d’arte e fanno incetta di premi. L’attività, intanto, si trasferisce nei locali dell’Istituto Artigianelli, concessi in affitto con l’obbligo di insegnare l’arte della falegnameria ai ragazzi ospiti.
“Fu un papà molto severo con me, io ho fatto il contrario”, ammette Elio, che ancora ragazzotto viene mandato a farsi le ossa e a studiare i trucchi del mestiere in altre aziende. I suoi consigli però sono ancora ben chiari nella testa di chi porta con fierezza quel cognome: “Non chiedere l’acconto, se il lavoro è fatto bene lo pagheranno”. E poi: “Compra solo ciò di cui hai bisogno e solo se hai i soldi”. Ricordi indelebili, come quelle tavole di legno acquistate da Sanguineti e trasportate sulla bicicletta, in equilibrio da trapezista e sforzo da culturista.
Nel riavvolgere il nastro di questa storia c’è un’altra tappa fondamentale: il trasferimento nell’attuale sede di San Terenziano, intuizione di Elio che permette di operare in spazi più grandi. La filosofia non cambia: “Dal taglio della tavola fino al trasporto finale, facciamo tutto in casa, con le nostre mani e con materiali di prima scelta”, rivela Dario mostrando un cassetto a coda di rondine. Ecco perché non si può mettere a confronto Zucchi e le multinazionali come Ikea: “C’è un discorso di qualità e poi, soprattutto, ogni nostro pezzo è unico”, aggiunge Federico, figlio di Dario e nipote di Elio, la sesta generazione all’opera in bottega.
Il bello di essere falegname? “Vedere quello che fai”, risponde. La soddisfazione più grande per papà Dario, invece, “è il passaparola, l’indice che hai lavorato bene. Non abbiamo bisogno di pubblicità: mai fatta in 170 anni”. Difficoltà, ovviamente, ce ne sono: “La principale è far capire al cliente, nell’era di Amazon dove tutto è veloce e immediato, che per realizzare una porta possono servire anche 20 giorni”, dice Federico.
Nel laboratorio leivese lavorano in sette, si avvicinano molti giovani che vengono formati e qui trovano la strada verso il mondo dell’occupazione; collaborazione con le associazioni per far riscoprire la bellezza di un antico mestiere che non deve scomparire. Perché dà enormi soddisfazioni, come la scatola in legno che l’Istituto Idrografico della Marina ha poi riempito di strumentazione e spedito a diverse personalità di caratura internazionale, oppure il portone restaurato della Cattedrale Nostra Signora dell’Orto a Chiavari: maestoso, lo guardi e pensi subito a Zucchi, i falegnami.
DANIELE RONCAGLIOLO