di ANTONIO GOZZI
Il Jobs Act è stato una misura importantissima sul mercato del lavoro adottata dal Governo Renzi nel 2014 con l’obiettivo di rendere compatibili due esigenze: quella della flessibilità per le imprese da una parte e quella delle garanzie e delle tutele del lavoro e dei lavoratori dall’altra.
La flessibilità è un elemento fondamentale per mantenere competitivo e adattivo il nostro sistema industriale, fatto soprattutto di piccole e medie imprese. Le garanzie e le tutele per i lavoratori sono altrettanto importanti perché, all’epoca, il mercato del lavoro era caratterizzato nello stesso tempo da iper-tutele per alcuni e da precarietà per altri.
Sulla bontà della misura, i dati parlano chiaro: il Jobs Act ha contribuito alla creazione di oltre un milione di posti di lavoro tra il 2015 e il 2018. In particolare nel solo 2015 – l’anno di piena applicazione della riforma – l’occupazione è aumentata di 109mila unità nette in termini congiunturali e 186mila su base annua. Si tratta di persone che sono entrate finalmente nel mercato del lavoro in un paese che dopo anni di stagnazione ridava segni di crescita economica.
La riforma prevedeva il contratto a tutele crescenti, ovvero una forma di contratto a tempo indeterminato con un meccanismo di protezione progressiva per il lavoratore. Appunto un compromesso intelligente tra flessibilità e garanzie.
Nei primi due anni della riforma l’uso del contratto a tutele crescenti è cresciuto del 36 per cento mentre calavano i contratti a termine.
Questa tendenza si è consolidata negli anni seguenti con la crescita dell’occupazione industriale, fatta per la stragrande maggioranza di contratti a tempo indeterminato; questi ultimi stanno diventando uno strumento di fidelizzazione delle risorse umane da parte delle imprese, sempre più alla disperata ricerca di forza lavoro disponibile e qualificata.
Del Jobs Act, inoltre, il mondo delle imprese ha valutato importantissima la modifica della disciplina dei licenziamenti, la quale, adeguandosi alla situazione degli altri più importanti paesi industriali europei, ha abolito la modalità del reintegro in caso di licenziamento illegittimo, sostituendolo con un indennizzo economico certo e rapido, tanto più importante quanto più le ragioni del licenziamento da parte dell’impresa sono deboli.
Una misura riformista che dimostrò la capacità della sinistra di governo di allora di essere all’altezza della gestione equilibrata dei sistemi complessi delle economie di mercato nell’interesse dell’efficienza e competitività delle imprese ma anche della tutela dei più deboli.
Una sinistra ‘dei meriti e dei bisogni’, per usare la teoria di Rawl, rappresentata allora dal Pd di Renzi.
Oggi cosa succede invece?
La segretaria del Pd Elly Schlein, in una specie di “cupio dissolvi” volto a far dimenticare l’era in cui il Pd era guidato dal riformismo renziano, si accoda a Landini, al M5S, alla sinistra più radicale per cancellare tutta quella stagione. E qui, come è stato giustamente rilevato, scatta il cortocircuito, perché se il Pd dice che il Jobs Act è stato un grave errore, tanto da lanciare una campagna referendaria per abolirlo, sta dicendo che la sua stagione di governo riformista è stata un fallimento.
Quale la ragione di questa sconfessione di una stagione di governo che pure aveva visto il Partito Democratico protagonista e tanti buoni risultati per il Paese? Posizionamento? Rebranding? Pas d’ennemis à gauche? Questa giravolta non solo umilia i riformisti dentro il Pd, che mugugnano ma non hanno il coraggio di fare una battaglia in campo aperto di contenuti e di valori perché temono di non essere ripresentati alle prossime elezioni; ma allontana sempre di più il partito da quella società civile e da quei ceti produttivi e moderati senza i quali non si vincono le elezioni.
Estremismo ambientalista e conferma acritica del green deal nonostante questo stia distruggendo decine di migliaia di posti di lavoro nelle fabbriche (basti pensare all’automotive), posizioni non univoche in politica estera (mezzo gruppo parlamentare europeo ha votato contro il piano di difesa della Von der Leyen, approvato invece dai socialisti europei), populismo sinistrorso sulle questioni del lavoro sostanzialmente a rimorchio della Cgil di Landini; e tutto per non perdere consensi verso l’estremismo di sinistra radicale e di Conte. È questa la nouvelle vague, la nuova era del Pd.
Sembra che il Pd della Schlein per paura di sembrare troppo riformista si accodi a battaglie che contraddicono la sua storia migliore. Non certo una buona carta di identità per una forza che aspira ad essere forza di Governo.
Giorgia Meloni in questa situazione è destinata a governare a lungo.