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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

Verso il secondo mandato di Donald Trump: gli analisti si interrogano sull’applicazione dei dazi

Le importazioni, secondo Trump, vanno tassate pesantemente e gli alleati spinti con le cattive ad accettare accordi che promuovano il made in Usa
Donald Trump ha vinto con ampio margine le elezioni americane
Donald Trump ha vinto con ampio margine le elezioni americane
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Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.

di ANTONIO JUNIOR LUCHINI *

Sono passate poco più di due settimane dalle elezioni negli Stati Uniti, ma abbondano già analisi e predizioni di vario tipo su cosa farà Donald J. Trump appena potrà sedersi di nuovo nell’ufficio ovale. Anche i grandi investitori istituzionali si muovono in tal senso, “scommettendo” in borsa: molti appaiono convinti che il secondo mandato di Trump non sarà particolarmente diverso dal primo e sembrano essere ottimisti sulle grandi questioni economiche, in particolare i dazi.

Questo approccio è forse eccessivamente fideistico. Trump ha parlato tantissimo di dazi durante la campagna elettorale e, pur dovendo accettare compromessi una volta approdato alla Casa Bianca, non sembra disposto ad abbandonare in toto uno dei punti chiave della sua immagine pubblica.

La tesi di Trump è apparentemente semplice, e va alla pancia dell’elettorato americano: gli USA hanno un deficit commerciale troppo ampio, con paesi rivali quali la Cina e con alleati “infidi” come la Germania e altri paesi dell’Unione Europea. Le importazioni vanno tassate pesantemente e gli alleati spinti con le cattive ad accettare accordi che promuovano il made in Usa. Una tesi che sicuramente cozza con il consenso degli economisti, che vedono il deficit commerciale americano come il naturale risultato di un Paese dalla valuta forte e dalla scarsa attitudine al risparmio privato e istituzionale. Di certo c’è che nessuno ha mai vinto un’elezione all’insegna del “bisogna tirare la cinghia”.

Nel suo primo mandato, Trump aveva portato avanti una guerra commerciale infruttuosa con il colosso cinese: la produzione e l’export di acciaio americano rimasero pressappoco ai loro livelli tipici, ma in compenso le importazioni di acciaio cinese vennero rapidamente sostituite dai produttori con leghe di origine vietnamita e thailandese. Il conflitto commerciale coinvolse anche l’Unione Europea che adottò, con esiti ambigui, la strategia di contro-sanzionare gli export del settore agricolo USA legati alla base repubblicana: il mais dell’Iowa e la carne bovina del Texas, ma anche il whiskey bourbon del Tennessee. I tentativi trumpiani di stabilire accordi commerciali per la promozione dell’export USA si risolsero in memorandum sostanzialmente inattuati, come nel caso del Phase 1 condotto con la Cina.

Trump ora torna alla carica, apparentemente prossimo a nominare un Segretario al Tesoro e un Trade Representative disposti a sostenerlo nei suoi propositi. L’Unione Europea è sempre nel mirino dell’amministrazione, che potrebbe tentare una serie di accordi sottobanco con gli Stati membri per minarne l’unità sul fronte commerciale: per esempio aumentando in modo sproporzionato i dazi imposti sulle automobili europee senza intaccare le aliquote su componentistica e semilavorati. L’azione di Trump potrebbe essere più graduale e subdola, volta a evitare una rappresaglia unificata da parte del continente che rischierebbe di creare seri grattacapi per gli esportatori americani.

In tutto ciò, sulla presidenza Trump si staglia la tetra possibilità di una nuova ondata inflattiva, questa volta alimentata sia dalle politiche protezionistiche che dalla proposta di una imponente deportazione di massa ai danni degli immigrati residenti in USA; manovra che andrebbe sicuramente a intaccare la forza lavoro del paPese. Un elemento da non sottovalutare, considerando che i grandi shock elettorali di quest’anno in giro per il globo sembrano essere stati alimentati proprio dall’insofferenza delle masse verso l’aumento dei prezzi.

(* analista e consulente specializzato in relazioni internazionali e politica commerciale, collaboratore di Jefferson – Lettere Sull’America)

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