di DANIELE LAZZARIN *
Meno glamour, forse per lo sciopero delle attrici e degli attori di Hollywood, ma ricchezza di idee e film di valore quest’anno all’ottantesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia, la più antica del mondo perché risale al 1932 (alcuni anni per ragioni storiche non vengono considerati).
Vince il Leone d’oro per il miglior film, senza sorprese, Poor Things – Povere creature di Yorgos Lanthimos, una black comedy a tinte surreali e steampunk, fantascientifica in una dimensione spazio-temporale apparentemente di inizio ’900, ma effettivamente ucronica, che rielabora al femminile la storia della “creatura” di Frankenstein, adattando un romanzo di Alasdair Gray. La protagonista Bella, interpretata da una sempre straordinaria Emma Stone, assente dal red carpet per lo sciopero, cresce nell’intelligenza di sé e del mondo giungendo all’autodeterminazione e alla liberazione sessuale, sfidando il potere maschile: in questo, come rivela proprio Lanthimos in un’intervista, consisterebbe anche la sua attualità. Resta il fatto che né Bella, né lo scienziato pazzo che la fa vivere, né l’avvocato che la inizia al piacere, sembrano mai possedere o conquistare un’educazione sentimentale ed emotiva, ed è in questa assenza, forse, il messaggio più nascosto e contemporaneo del film, veicolato da una sorta di black humour.
In senso opposto si muovono altri due film premiati a Venezia: vince il Premio speciale della Giuria Zielona Granica – The Green Border di Agnieszka Holland, regista polacca cresciuta nella collaborazione con autori come Zanussi, Wajda e Kieslowski, della quale ricordiamo fra l’altro Poeti dall’Inferno, con un giovanissimo Leonardo di Caprio nel ruolo di Rimbaud. A sua volta Matteo Garrone per l’atteso Io capitano ottiene il Leone d’argento per la miglior regia, mentre il suo giovane protagonista Seydou Sarr vede riconosciuta la forza della sua interpretazione con il Premio Mastroianni per attore o attrice emergente; fin dal giorno della prima, Io capitano conferma il suo grande successo veneziano nelle sale italiane in cui è in programmazione. Si tratta di due film molto diversi tra loro per stile, arte narrativa e immaginazione, ma ambedue raccontano in prospettiva inedita la realtà scottante dell’emigrazione e storie personali di sofferenza, presa di coscienza e trasformazione.
Il “confine verde” di The Green Border è la fascia di confine tra Polonia e Bielorussia, zona ricoperta di foreste gelide e paludose che richiama alla mente i luoghi dove sorgevano i più lugubri campi di concentramento nazisti, oggi zona di emergenza a cui non è consentito l’accesso ai normali cittadini polacchi ma solo alle guardie di confine, incaricate di “rilanciare” oltre un reticolato i proiettili umani, tra cui vecchi, donne e bambini, profughi e rifugiati siriani e afghani, fatti arrivare con le migliori speranze a Minsk per poi, dopo vari abusi, essere introdotti clandestinamente in Polonia, come strumento di destabilizzazione nel tacito scontro fra il mondo dominato da Lukashenko e Putin e l’Occidente. Agnieszka Holland registra e ricostruisce con un freddo bianco e nero e sulla base di una precisa documentazione questa continua offesa ai diritti umani fondamentali, prima di tutto il diritto alla vita, operata dalle due parti.
Al centro di questo rimpallo si muovono i protagonisti, una famiglia siriana e una coraggiosa anziana donna afghana, ma, nei diversi capitoli in cui è suddiviso il film, acquistano sempre più rilievo anche i conflitti interiori e la maturazione morale di Jan, guardia di frontiera, e la presa di coscienza di Julia, psicoanalista che vive solitaria vicino al confine ed entra, però, in una dimensione di solidarietà e comunità con un gruppo di attivisti di un’associazione umanitaria. Girare questo film “è stato una lotta ma è stato un dovere” per la regista, sempre attenta al tema della responsabilità morale e ben consapevole delle critiche e delle accuse infamanti che proprio dalle autorità le sarebbero state mosse, come sta accadendo, in patria. Il carattere altamente drammatico e coinvolgente delle scene di The Green Border non ha giovato, in un ideale paragone, a un film in concorso proiettato nello stesso giorno e ben introdotto dalla critica, Enea, opera seconda del giovane regista e attore protagonista Pietro Castellitto, che si propone come cult movie della nuova generazione, ma fatalmente finisce per cadere nel senso di futilità e vacuità che vuole rappresentare, e a poco giovano gli stereotipi della “grande bellezza” e della decadenza di Roma, il tema del ribellismo giovanile, la mescolanza di generi non chiaramente finalizzata, lo humour di alcune trovate grottesche. Si salva la recitazione silenziosa e un po’ dolente del padre Sergio.
Sembra invece proporre un ritorno alla migliore tradizione del Neorealismo umanistico di De Sica e Rossellini Io capitano, che racconta dal punto di vista di un sedicenne senegalese, Seydou, una drammatica e dolorosa odissea di migrazione, ma anche un’epica avventura. Matteo Garrone evita di cadere nella retorica e nella facile commozione e, all’inizio, rappresenta Dakar e il mondo da cui il ragazzo parte con il cugino Moussa, all’insaputa e contro il volere della madre, come luoghi pieni di colore, di luce e di legami: ma le “sirene” dei social, l’idea di diventare cantanti famosi e il desiderio di miglioramento sono spinte troppo forti per restare. L’amore materno introiettato accompagnerà però Seydou attraverso le prove più dure, il deserto, lo sfruttamento, le perdite, le torture, i luoghi di detenzione, consentendogli di continuare a sognare e di mantenere un senso di compassione e solidarietà nei confronti degli altri. Grazie all’aiuto di un uomo, che lo sosterrà come quel padre che da anni ha perduto, giungerà alla costa libica dove l’attenderà l’ultima prova. Rimangono impresse le ultime immagini del film, lo sguardo e la “purezza”, come dice il regista, di Seydou, pur segnato anche nel volto da ciò che dolorosamente ha vissuto, e le sue parole piene di orgoglio e commozione per l’impresa compiuta. Non sappiamo quale altra odissea lo attenda in quella che lui crede una “terra promessa”, ma certamente Garrone ha ricercato la verità e non la nasconde, lasciandoci liberi di porci tutti gli interrogativi che inevitabilmente affiorano alla nostra coscienza e mettendo insieme testimonianze di tante storie vere senza rinunciare al gusto del fiabesco e alle strutture della storia di formazione, come nel suo Pinocchio. Ha ripreso gli attori, nella prima parte, mentre parlavano nella loro lingua, il wolof, non prestando troppa attenzione alla traduzione degli interpreti, ma cercando di cogliere intuitivamente i loro pensieri attraverso espressioni, mutamenti di stato d’animo, gesti e sguardi, soprattutto quello trasognato e coraggioso di Seydou, che fra l’altro sarebbe stato condannato alla cecità se non fosse intervenuta un’operazione.
La realtà, i paradisi perduti, la fatica di crescere e la lotta contro ogni sorta di discriminazione sono anche temi ricorrenti nei film della sezione Orizzonti, che difficilmente entreranno nel circuito commerciale.
(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)