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di GIACOMO BRIDI *
Dall’inizio del conflitto in Medio Oriente, nei campus americani il fermento è grande: un’intera generazione sembra rivoltarsi contro la violenta risposta israeliana nella Striscia di Gaza all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre scorso, e di riflesso anche contro il governo americano, colpevole di aver dato carta bianca al governo di Netanyahu. Un impressionante numero di studenti si è mobilitato in innumerevoli manifestazioni che si sono diffuse a macchia d’olio nelle università del paese con cadenza settimanale, chiedendo a gran voce la fine delle ostilità e puntando il dito contro Biden e i democratici al Congresso per il loro esplicito sostegno al governo israeliano o, poco meglio, per il loro silenzio, solleva significativi rischi elettorali per il Presidente uscente. Già a novembre, una serie di organizzazioni studentesche l’avevano messo in chiaro: o c’è un esplicito cambio di atteggiamento verso l’offensiva nella Striscia, con la fine del supporto incondizionato all’esercito israeliano e la richiesta di un cessate il fuoco immediato, o gli studenti non andranno a votare, mettendo in serio pericolo le speranze di un secondo mandato per Biden.
La sensazione che si stia consumando un’ingiustizia, la crescente esasperazione per un conflitto che non accenna a diminuire di intensità e la frustrazione verso una Casa Bianca titubante a fare la voce grossa con Tel Aviv hanno polarizzato sempre di più gli studenti e reso le proteste nei campus diffuse e disperate, mentre la risposta ad esse prosegue censoria e sdegnata. Più di ogni altra cosa, però, queste proteste segnalano il concretizzarsi di una evidente frattura generazionale, come fu la guerra in Vietnam quasi sessant’anni fa. Se quasi ogni dinamica del conflitto è differente, così come lo era il coinvolgimento personale degli studenti stessi (si era in regime di coscrizione obbligatoria in una guerra che coinvolgeva direttamente gli Stati Uniti), la risposta e soprattutto la sensazione sembra simile: una generazione orripilata da una violenza che ha sotto i suoi occhi e a cui non riesce a dare un senso, né soprattutto a conciliare a quegli ideali di democrazia che vengono propagandati come ciò che si sta difendendo attraverso il conflitto stesso.
Nonostante il fatto che (quasi) fin dall’inizio Biden e la sua amministrazione abbiano cercato di mettere un freno all’operazione israeliana a Gaza sia già di per sé un notevole cambio di policy rispetto al passato, e sia più di quel che la maggioranza dei governi europei abbiano fatto, l’assenza di miglioramenti sul campo ha creato un’impressione di incapacità, quando non di complicità. Inoltre, il tradizionale sostegno bipartisan ad Israele che è stato dimostrato da classe politica e stampa per buona parte del conflitto ha alienato ancor di più gli studenti, e allora nei campus, nelle strade, ai comizi politici si grida, si blocca il traffico, si marcia, si fa volantinaggio per farsi sentire da una classe politica che ha molto da perdere.
La pressione sui democratici è tanta, e la diversa risposta da parte dei singoli evidenzia quanto il partito sia diviso in tema. La presenza di rumorosi manifestanti pro-Palestina è ormai comune a qualsiasi evento dei democratici, come dimostrato dalla mega raccolta fondi alla Radio City Music Hall con Biden, Obama e Clinton che è stata più volta interrotta da grida come “F–k Biden” provenienti dal pubblico. I manifestanti continuano ad affrontare direttamente candidati e politici, persino dell’ala più progressista del partito come la stessa Alexandra Ocasio Cortez. A sorprendere non è solo la violenza dei toni quanto anche la persistenza e la sistematicità delle proteste a molti mesi dall’esplosione del conflitto. È anche chiaro come la questione sia tutta interna ai dem: le proteste non sono quasi mai dirette ai repubblicani, che dal canto loro promettono di deportare i manifestanti e invitano gli americani ad attaccarli.
Tenendo anche conto dei sondaggi non proprio incoraggianti, la Casa Bianca farebbe bene a preoccuparsi: se non si presenteranno ai seggi o voteranno per un terzo partito, gli studenti, che sono fra le categorie più fidate per i democratici, potrebbero quindi suonare la campana a morto per le speranze di un secondo mandato per Biden. Non è da escludere, perciò, che la recente presa di posizione più esplicita da parte del governo americano, con l’approvazione della mozione per il cessate il fuoco al Consiglio di Sicurezza, sia dettata anche da fini elettorali. Sempre con lo sguardo rivolto a ingraziarsi gli studenti, Biden ha cancellato altri 1.2 miliardi di dollari di debiti studenteschi per più di 150mila americani, ma c’è chi teme che non sia abbastanza. L’estate è alle porte, ed è impossibile non andare mentalmente a quella di quattro anni fa, quando il paese fu lacerato dalle proteste dopo l’uccisione di George Floyd da parte di un poliziotto a Minneapolis. Allora, però, al 1600 di Pennsylvania Avenue abitava un repubblicano, i democratici erano coesi, e non c’erano in ballo delicati rapporti diplomatici con un alleato. Un altro particolare evoca il passato: la convention democratica di quest’anno si terrà nella stessa Chicago che fu teatro di violenti scontri durante lo stesso evento nel 1968 tra pacifisti e polizia, mettendo a nudo nel modo più cruento possibile le profonde divisioni nel partito.
(* Studente magistrale di North American Studies alla Freie Universität Berlin. Appassionato di America)