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Giovedì 11 settembre 2025 - Numero 391

Trump perde in tribunale su dazi, finanziamenti all’università e immigrazione. Ora occhi puntati sulla Corte Suprema

La posta in gioco non è solo la legittimità di singole misure, ma la definizione stessa del potere presidenziale nel XXI secolo
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump
Il presidente degli Stati Uniti Donald Trump
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Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.

di MATTEO MUZIO *

Dopo le ingiunzioni di primo grado delle corti federali distrettuali (oggi rese più complicate da emettere grazie alla sentenza della Corte Suprema Trump v. Casa dello scorso giugno), nelle ultime settimane la Casa Bianca ha dovuto registrare ben tre sentenze negative su temi che costituiscono altrettanti pilastri della sua azione governativa. 

La prima riguarda i dazi, l’architrave del rapporto del presidente con il resto del mondo, uno strumento usato per i motivi più disparati, anche per esercitare pressione politica: la Corte d’Appello del Federal Circuit ha stabilito che la maggior parte dei dazi imposti da Trump sono illegali, in quanto non autorizzati dal Congresso e non giustificabili attraverso l’International Emergency Economic Powers Act (IEEPA). Con una maggioranza di 7 a 4, i giudici hanno rigettato l’idea che un disavanzo commerciale possa costituire una “minaccia straordinaria” tale da giustificare l’imposizione unilaterale di tariffe. 

La sentenza ha chiarito che il potere di imporre dazi è una prerogativa legislativa, e che lo IEEPA non contiene né riferimenti espliciti né strutture procedurali che autorizzino il presidente a esercitare un potere quasi illimitato. 

Come ha scritto il Wall Street Journal, Trump non è un “re delle tariffe”: la decisione invalida i dazi “reciproci” imposti su decine di paesi, oltre a quelli su Canada, Messico e Cina, giustificati dall’amministrazione come strumenti per contrastare l’importazione di stupefacenti. 

La Casa Bianca ha reagito con veemenza, annunciando l’intenzione di ricorrere alla Corte Suprema, dove la composizione favorevole potrebbe ribaltare l’esito. Anche il potere economico, spesso esercitato con discrezionalità, non è immune al controllo costituzionale. 

La seconda sentenza riguarda l’uso dell’Alien Enemies Act, una legge del 1798 invocata da Trump per giustificare la deportazione di migranti venezuelani accusati di far parte della gang Tren de Aragua. La Corte d’Appello del Quinto Circuito ha stabilito che le attività criminali attribuite al gruppo non costituiscono né un’invasione né una minaccia militare da parte di uno Stato estero. Il tentativo di estendere una norma pensata per tempi di guerra a contesti migratori e criminali è stato respinto come arbitrario e privo di fondamento giuridico. 

Il dissenso del giudice Oldham, che ha sostenuto una lettura ampia e quasi illimitata del potere presidenziale, ha sollevato ulteriori interrogativi sulla tenuta dei contrappesi istituzionali. 

Infine, la terza sentenza ha visto l’università Harvard prevalere contro il governo in una battaglia legata ai finanziamenti pubblici alla ricerca. Il tribunale distrettuale di Boston ha annullato la decisione dell’amministrazione di congelare oltre 2 miliardi di dollari, ritenendo che le richieste imposte alla governance universitaria fossero motivate da pressioni ideologiche e violassero il Primo Emendamento. 

Il giudice Burroughs ha sottolineato come l’autonomia accademica non possa essere subordinata a criteri politici, riaffermando il principio di libertà intellettuale come fondamento della democrazia. 

Con tre sentenze che minano le fondamenta della sua agenda—dazi, immigrazione e controllo ideologico sulle istituzioni—la Casa Bianca si prepara a un confronto decisivo con la Corte Suprema. Il ricorso è già annunciato, e il terreno è tutt’altro che neutro: sei dei nove giudici sono stati nominati da presidenti repubblicani, tre direttamente da Trump. Ma proprio questa composizione potrebbe trasformare il caso in un test cruciale sulla tenuta del principio di separazione dei poteri. 

La posta in gioco non è solo la legittimità di singole misure, ma la definizione stessa del potere presidenziale nel XXI secolo. Se la Corte dovesse confermare le sentenze d’appello, si consoliderebbe una giurisprudenza che limita l’uso creativo di leggi emergenziali e riafferma il ruolo del Congresso come contropotere forte rispetto all’esecutivo. Se invece dovesse ribaltarle, si aprirebbe una nuova stagione di presidenza imperiale, quasi totalizzante, in cui la volontà del presidente potrebbe prevalere anche in assenza di mandato legislativo esplicito. 

Una teoria caldeggiata anche da diversi sostenitori di Trump tra cui Russ Vought, il sinistro capo dell’Ufficio Management e Budget, noto per le sue posizioni vicino al nazionalismo teocratico di matrice cristiana evangelica. 

In entrambi i casi, il verdetto sarà destinato a segnare un punto di svolta. Non solo per l’amministrazione Trump, ma per l’equilibrio costituzionale degli Stati Uniti. E forse, per l’idea stessa di democrazia americana in un’epoca dove la concentrazione di potere a livello presidenziale ha superato il livello di guardia da diverso tempo, anche al tempo delle amministrazioni di Barack Obama e Joe Biden. 

(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)

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