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di GIULIA FAIELLA *
È cosa nota che l’ingresso e la permanenza negli Stati Uniti stiano diventando un’impresa sempre più ardua. Tuttavia, la situazione è ancora più difficile per chi appartiene alla categoria degli “irregolari”, oggetto di una vera e propria caccia alle streghe da parte dell’amministrazione Trump.
“Cominceremo la più grande deportazione della Storia”: così si era pronunciato Trump durante la sua campagna elettorale. Una frase che oggi alla luce dei fatti risuona profetica.
L’immigrazione irregolare è stata un punto cruciale della sua corsa alla Casa Bianca tanto che ha parlato della necessità di “fermare l’invasione”, affermando che gli immigrati clandestini “stanno avvelenando il sangue del nostro Paese”.
Per il suo piano, Trump aveva palesato l’idea di dispiegare la Guardia Nazionale insieme alla guardia di frontiera
Molti sono i segnali del netto inasprimento delle politiche migratorie del paese: dal tentativo di revoca dello ius soli, alla politica del Remain in Mexico, fino all’aggiornamento della “lista nera” dei Paesi con divieto di accesso, passando per i raid dell’ICE (una forza di polizia che serve per il controllo interno degli irregolari) contro gli immigrati e l’intervento nelle città che sono roccaforti dei democratici. Andiamo con ordine.
Il giorno del suo insediamento, il 20 gennaio, Trump firmò un decreto intitolato “Proteggere il valore e il significato della cittadinanza americana”, con l’obiettivo dichiarato di limitare l’immigrazione irregolare, negando la cittadinanza ai bambini nati da genitori senza documenti di soggiorno o con visti temporanei. Di fatto, intendeva cancellare lo ius soli: principio cardine sancito dal 14° emendamento della Costituzione americana e applicato da oltre 150 anni.
Il decreto sarebbe dovuto entrare in vigore circa 30 giorni dopo la firma e avrebbe potuto incidere ogni anno sulla vita di oltre 150.000 neonati negli Stati Uniti. Tuttavia, il provvedimento è stato ritenuto incostituzionale da molti tribunali e corti d’appello ed è stato perciò sospeso a livello nazionale in seguito a un provvedimento emesso dal giudice federale Joseph Laplante. Il giudice ha però disposto che la sua decisione resti sospesa per una settimana, così da consentire all’amministrazione Trump di fare ricorso in appello.
A questa battuta d’arresto, se ne sono aggiunte altre, questa volta proprio nel cuore della stessa campagna antimmigrazione. Infatti, il tycoon, che nel suo discorso inaugurale si era fatto promotore della politica del Remain in Mexico la quale imponeva ai migranti richiedenti asilo di attendere l’esito delle procedure nel territorio messicano, si è visto bloccare la direttiva dal giudice federale Randolph Moss. Quest’ultimo ha anche accusato il presidente repubblicano di “abuso di autorità” nel cercare di sostituire le leggi emanate dal Congresso.
A questo, si è aggiunta la decisione del giudice federale di New York, Brian M. Cogan, che ha impedito la revoca della protezione temporanea per oltre 500.00 mila migranti haitiani già presenti negli Stati Uniti, giudicando la proposta illegale.
Tuttavia, il rafforzamento della sorveglianza ai confini, con un aumento pari al 60% del numero di truppe, ha comunque portato il numero di arresti nei pressi delle frontiere al livello più basso degli ultimi anni.
Nonostante gli ostacoli giuridici, Trump continua a portare avanti con forza le sue proposte. A partire dal 9 giugno è infatti entrato in vigore una nuova “lista nera” dei paesi i cui cittadini non possono varcare il suolo americano. Si contano ben 12 paesi: Afghanistan, Ciad, Eritrea, Guinea Equatoriale, Haiti, Iran, Libia, Myanmar, Repubblica del Congo, Somalia, Sudan e Yemen. Chi proviene da queste nazioni non potrà ottenere né permessi di soggiorno permanenti né visti turistici o per studenti. A questi, si aggiungono ulteriori restrizioni ai viaggi da parte di cittadini provenienti da Burundi, Cuba, Laos, Sierra Leone, Togo, Turkmenistan e Venezuela.
Ovviamente le discusse misure, secondo l’amministrazione Trump, rientrano nel concetto di “sicurezza nazionale” e il divieto agirebbe come monito per costringere i governi stranieri a collaborare con la Casa Bianca.
Lascia perplessi anche la decisione del governo di Washington di avviare i cosiddetti raid antimmigrati nelle principali città statunitensi, attraverso ripetute operazioni degli agenti dell’ICE volte ad arrestare ed espellere gli immigrati irregolari. Queste operazioni hanno scatenato forti proteste soprattutto nelle “città santuario”, quali Los Angeles, Chicago, New York, San Francisco e Seattle, considerate dallo stesso Trump “il cuore del potere democratico”. In risposta alle proteste, la Casa Bianca ha deciso di schierare la Guardia Nazionale definendo le manifestazioni come “un’insurrezione”, nell’ottica di quella che il consigliere di Trump per l’immigrazione Stephen Miller ha definito una “battaglia per la civiltà”. Al momento però lo scontro non è salito a livello di scontri generalizzati come quelli dell’anno di Black Lives Matter, il 2020.
Il quadro complessivo della situazione getta un’ombra inquietante sulla più grande democrazia del mondo e inevitabilmente ci si chiede se è molto lontano il punto di rottura verso l’autoritarismo.
(* Studentessa in Scienze Internazionali e Diplomatiche presso l’Alma Mater Studiorum di Bologna, collaboratrice di Jefferson-Lettere sull’America, membro del team Hikma, associazione studentesca che cura un festival annuale di politica internazionale)