di ANTONIO GOZZI
Fare impresa con l’obiettivo di ‘portare valore ai clienti’, ‘investire nei lavoratori’, ‘trattare in modo giusto e etico con i fornitori’, ‘supportare le comunità in cui operiamo’, ‘proteggere l’ambiente adottando pratiche sostenibili’. E, solo come ultimo punto, ‘generare valore nel lungo termine per gli azionisti che forniscono capitale che permette alle nostre aziende di investire, crescere e innovare’.
Sono questi gli impegni sottoscritti da 181 amministratori delegati di grandi aziende statunitensi riuniti nell’associazione Business Roundtable, che riunisce 200 gruppi tra i quali Amazon, Blackstone, Citigroup, General Motors e Morgan Stanley, il cui board è presieduto dal numero uno di JPMorgan, Jamie Dimon.
Il documento che propone questi contenuti è quasi un manifesto per una svolta in senso etico del capitalismo statunitense.
Il profitto non è più l’unica bussola che deve guidare un’azienda di successo. Accanto alla soddisfazione degli azionisti, le imprese oggi devono darsi altre priorità, a cominciare dal trattare con rispetto i propri dipendenti e l’ambiente.
Gli azionisti, è il nuovo motto, vanno considerati alla pari dei lavoratori, dei clienti, dei fornitori, della comunità in cui si opera.
Dimon, intervistato a lungo sul ‘manifesto’, ha spiegato che “il sogno americano è vivo ma si sta logorando” ed è quindi necessaria una profonda riflessione per comprendere quali sono le sfide che stanno dinanzi alle imprese e quale sia la strada giusta da percorrere.
Verrebbe da dire: meglio tardi che mai!
E ciò tenuto conto del fatto che tra i firmatari del documento ci sono moltissimi esponenti e moltissime imprese protagonisti della fase di ‘turbocapitalismo’ che ha caratterizzato gli Usa, ma non solo gli Usa, negli anni ruggenti della globalizzazione non governata, e che ha provocato, insieme alla crescita poderosa di economie arretrate (si pensi alla Cina, all’India, alla Corea, al Brasile ecc.), anche enormi diseguaglianze ed enormi sofferenze in vasti strati di popolazione soprattutto in Europa.
Un capitalismo soprattutto finanziario, con logiche di ritorni molto alti e molto veloci per azionisti e manager, con stipendi e premi altissimi per i vertici delle imprese e bassi o molto bassi per impiegati e operai. Un capitalismo senz’anima destinato al fallimento.
Il fatto che si apra una seria riflessione sui mali di un capitalismo di questa natura appare solo positivo. Finalmente se ne accorgono anche i CEO strapagati delle grandi corporation americane.
È lecito chiedersi se il nuovo approccio per un ‘capitalismo etico‘ sia effettivamente un ravvedimento convinto e profondo o piuttosto l’ennesimo espediente comunicativo per godere di migliore stampa e considerazione nell’opinione pubblica, o per evitare una modifica della legislazione fiscale americana, oggi generosissima nei confronti dei profitti delle grandi imprese.
Saranno i fatti a chiarire il dubbio.
Moltissime sono le questioni aperte sulle quali misurare la validità e la tenuta del nuovo approccio.
La prima è che il capitalismo statunitense, e quello moderno in generale, esprime nuovamente una fortissima tendenza oligopolistica. Oligopolio vuol dire strapotere, accordi collusivi in danno ai consumatori, condizionamenti alla politica ecc. Fino ad oggi i tentativi delle varie Autorità Antitrust non hanno sortito grandissimi risultati. Cosa dicono al riguardo i CEO del Businness Roundtable? Per ora niente.
Ancora, sarà interessante vedere come le grandi corporation dei social (Google, Facebook, la stessa Amazon) in parte firmatarie del manifesto e vere protagoniste nella ricostituzione di oligopoli giganteschi e sostanzialmente incontrollati, affronteranno lo scabrosissimo tema della protezione dei clienti dal saccheggio dei dati personali, la cosidetta ‘profilatura’ che rappresenta la vera fonte dei super guadagni di queste società, e le enormi sfide etiche poste dalla diffusione dell’Intelligenza Artificiale e dalla crescente robotizzazione.
O ancora vedremo se i fondi e le grandi banche di affari (come Blackstone, JPMorgan, Morgan Stanley) sapranno uscire dalla terribile spirale della produzione di carta a mezzo carta e cercheranno di riequilibrare i loro investimenti da asset class puramente finanziarie a investimenti più industriali, meno volatili, capaci di sostenibilità nel lungo periodo.
La cultura d’impresa europea e, al suo interno anche quella italiana, hanno come spesso avviene molto da insegnare al riguardo al capitalismo statunitense.
I concetti di responsabilità sociale dell’impresa (proprio a Chiavari abbiamo in Lorenzo Caselli uno dei più importanti studiosi italiani in materia), di coinvolgimento dei lavoratori nella proprietà e nel governo delle imprese (vedi il caso tedesco ma anche quelli di altri paesi), di forte rispetto per l’ambiente, e di reale e convinta partecipazione ai processi di decarbonizzazione e transizione energetica fanno parte da tempo del bagaglio culturale di imprese e imprenditori europei, che guardano alla creazione di valore nel lungo periodo e al benessere di tutti gli stakeholders come il reale obiettivo della loro attività.
Noi italiani abbiamo sempre avuto nel modello di Adriano Olivetti il nostro punto di riferimento più alto. Un modello che oggi, dopo più di 60 anni, è silenziosamente riscoperto da moltissime imprese soprattutto del Nord, che proprio perché sono consapevoli che il capitale umano è la più grande ricchezza di cui dispongono, migliorano continuamente il welfare aziendale, con la realizzazione di spazi sempre più belli e accoglienti, con attività di formazione permanente dei lavoratori, con borse di studio e supporti all’educazione dei loro figli, con asili nido interni per favorire la maternità delle dipendenti, con meccanismi retributivi sempre più incentivanti la creatività e l’impegno.
Anche il sindacato, un tempo almeno in parte diffidente e/o contrario ad un approccio di questo genere in quanto non frutto di lotte sindacali, ma soprattutto della libera scelta e della cultura degli imprenditori, ha cambiato atteggiamento e, soprattutto a livello territoriale e aziendale, è impegnato e favorevole al nuovo corso.
La dimensione piccola e media e la natura molto spesso di proprietà familiare delle nostre imprese (il che per altri versi costituisce un limite del capitalismo italiano) posizionano molto bene il nostro sistema imprenditoriale rispetto a un approccio rispettoso e inclusivo dell’attività aziendale, che è normalmente permeata da un fitto sistema di scambi e relazioni positive con le persone che lavorano nell’impresa e che spesso la sentono come cosa loro.
Gli imprenditori italiani, o comunque la stragrande maggioranza di essi, pensano che non vi sia meccanismo più inclusivo dell’impresa stessa, quando è capace di creare contemporaneamente ricchezza e occupazione qualificata, e di investire continuamente in idee e in tecnologia per garantire un futuro sostenibile di lungo periodo.
Sono le imprese la vera ricchezza dell’Italia.