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di MATTEO MUZIO *
Lo sappiamo: la campagna presidenziale di Kamala Harris, iniziata dopo la rinuncia del presidente Joe Biden è iniziata lo scorso luglio, con un plus di entusiasmo che ha portato la candidata dem a colmare il gap con l’avversario Donald Trump che dopo l’attentato subito in Pennsylvania lo scorso 13 luglio sembrava destinato al trionfo.
Eppure, nonostante una strategia bizzarra del tycoon che punta tutto sulla mobilitazione della propria base e su una retorica anti-migranti sempre più estremista, i due candidati sono nuovamente in parità. Letteralmente il lancio di una monetina può decidere l’esito della competizione. Anzi, il trend, secondo alcuni sondaggisti, è a favore proprio di Trump. Certamente la sua vittoria nel 2016 ha sfidato la saggezza convenzionale, sfatando i pronostici, ma allora c’era una strategia ben precisa che puntava alla conquista dei tre stati della cosiddetta Rust Belt, la fascia post-industriale composta da Pennsylvania, Michigan e Wisconsin.
In questa fine di ottobre invece il tour trumpiano ha coperto lo stato di New York, la Virginia e il New Mexico. Tre stati che dovrebbero rimanere nel colonnino dei dem, dove sono sempre stati anche quando Joe Biden usciva da un dibattito disastroso. Cosa sta succedendo allora? C’entrano gli strumenti che misurano il consenso dei candidati, gli stessi sondaggi. Per capire, basta sovrapporre le mappe preparate dal sito RealClearPolling per le presidenziali e per il Senato.
Nella prima, Trump trionfa in Nevada, Arizona, Wisconsin, Michigan, Pennsylvania e Ohio. Se guardiamo invece il Senato, i candidati dem vincono con margini abbastanza confortevoli. Come si spiega? Fino a una quindicina di anni fa poteva anche accadere che il voto fosse disgiunto per varie ragioni, non ultima l’apprezzamento della capacità amministrativa di un rappresentante locale che aveva saputo conquistare un finanziamento federale per costruire una strada o aiutare il settore agricolo. Adesso invece questo accade sempre di meno, specie negli anni presidenziali: nel 2016 non è accaduto da nessuna parte mentre nel 2020 soltanto in Maine, stato che scelse Joe Biden come presidente e la moderata repubblicana Susan Collins quale senatrice. Un’eccezione.
Quest’anno potrebbe succedere lo stesso, a parti rovesciate, in Ohio, con la conquista dello stato da parte di Trump e la rielezione del dem Sherrod Brown, uno dei più forti difensori del protezionismo. Una sorta di coerenza quindi si può ravvisare in questa scelta. Non negli altri cinque stati, dove i candidati dem hanno posizioni molto più mainstream.
Secondo il magazine ‘New Republic’, la cosa si spiega con una “inondazione” perpetrata da parte di numerosi sondaggisti repubblicani tra i quali spicca Tony Fabrizio, statistico di fiducia proprio di Donald Trump, che sfornano rilevazioni a getto continuo per far sì che la media venga “aggiustata” in loro favore. Uno dei più autorevoli sondaggisti, Nate Silver, sostiene che questo non sia influente dato che le medie che pubblica sul suo sito, Silver Bullettin, tengono conto della faziosità di tali rilevazioni, dando un peso minore a quelle percepite come più “neutrali”.
Il problema è che il loro numero è soverchiante: secondo uno schema pubblicato dallo stesso Silver ci sono rilevazioni realizzate in questo ultimo trimestre da ben 26 organizzazioni repubblicane mentre quelle “neutrali” sono trentatré. I dem hanno solo un sondaggista. Si può facilmente comprendere come questo squilibrio favorisca la percezione di Trump come “vincente” e quindi spinga l’elettorato a “salire sul carro del vincitore” oppure, nel caso dei dem, a stare a casa perché “ormai è inutile”. C’è una ragione più sinistra però che spiegherebbe dei sondaggi così falsati: essi servono per il dopo-elezioni, quando in caso di sconfitta Donald Trump li potrà utilizzare come pezza d’appoggio per sostenere che le elezioni sono state nuovamente “rubate” e alimentare una retorica golpista che potrebbe portare a nuovo caos e disordini. Dimenticandosi poi come arrivò la sua unica vittoria nelle urne: in modo totalmente inaspettato, quando i dem guidati da Hillary Clinton sentivano di avere già le chiavi della Casa Bianca. Cosa che in questo caso è molto lontana dalla percezione della dirigenza del partito e dei militanti, che sono ben consapevoli che devono dare tutto per avere una chance di eleggere la prima donna presidente. Quindi occorre saper leggere i numeri, prima di avere sorprese come alle elezioni di metà mandato del 2022, quando ci si aspettava una pesante sconfitta per Biden e invece era arrivato un sostanziale pareggio.
(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)