di DANILO SANGUINETI
Le variazioni su un tema che abbia riscosso la generale approvazione sono un’arte nell’arte. Cambiare pochi particolari, allungare una sequenza che compiace i sensi del fruitore, un gioco sapiente di evoluzione del progetto base fatto di accelerazioni, ritardi, aumenti o diminuzioni, una novità in simbiosi con quanto è noto, un ossimoro che diletta. Vale per la musica, vale per la gastronomia. Data una pietanza che ha abbattuto ogni confine di tempo, spazio, usi e credenze – lo confermano i mille mila tentativi di imitazione molti dei quali pessimamente riusciti (alcuni al limite dei crimini contro l’umanità) – era inevitabile che si candidassero a frotte per trovare la mutazione vincente: elaborazioni, sviluppi, che hanno via via conquistato notorietà e un discreto successo.
Qui, nella patria incontestabile del prodotto che viene indicato come uno dei nostri maggiori contributi alla cultura mondiale – la parte masticabile dell’immortale binomio con il mandolino – si assiste a versioni alternative semplicemente stupefacenti. Tra queste spicca la Pinsa, ossia la pizza che non solo scioglie la doppia zeta nella esse aspra, pure ripiega su sé stessa l’impasto magico come un super calzone. Il filologo che ci accompagna in questo excursus nella storia del lievito, nelle sottili (anche materialmente) differenze tra scuole di pensiero e di forno, è Riccardo Spalazzi. Parmigiano, middle aged, da sempre nel settore della ristorazione. “La mia famiglia a Berceto, in provincia di Parma, aveva due locali, un Circolo Arci e una enoteca. Sono cresciuto tra forno e fornelli eppure non penso che la mia strada fosse segnata: avrei potuto fare il gestore. Invece sin da piccolo mi piaceva cucinare. Ho osservato, provato e sperimentato”.
Da lì ad aprire due locali dedicati alla Pinsa con l’insegna ‘Santapizza!’ a Sestri Levante il passo non fu né facile né corto. “Beh, venivamo in Liguria in vacanza al mare. L’itinerario logico da Berceto attraverso il passo di Cento Croci portava dritto a Sestri Levante. La Bimare mi è entrata nel cuore”. Ha contribuito anche una bella ragazza del posto che oggi è la signora Spalazzi. “Confesso che nella decisione di trasferirmi a Sestri c’è anche questo. Non me ne sono pentito”.
Sorride sereno nel far scorrere una pellicola ventennale. “La prima mossa fu quella di gestire l’Osteria ‘Cà di Ferae’ in via Nazionale. Il successo mi ha rassicurato e allo stesso tempo mi ha spinto a intraprendere altre avventure commerciali. Iniziai con il ristorante, imparai a fare la pizza, sperimentai diverse soluzioni. Nel mio girovagare ero capitato in ristoranti di Roma dove i ‘colleghi’ mi iniziarono ai segreti della Pinsa”.
Una variazione sul tema pizza che ha intrapreso un percorso talmente innovativo da differenziarsi radicalmente dall’origine. “Io più che derivazione parlo di due scuole di pensiero. Quella alla quale sino a poco tempo fa la stragrande maggioranza dei pizzaioli ‘laureati’ si riconosceva era, naturalmente, quella napoletana. Forno, cottura, impasto e preparazione rapida. Ora c’è quest’alternativa, la Pinsa, che prevede lieviti e lievitazioni di tipo ben differenti da quelli partenopei. E che è una creazione romana, altrettanto nobile, e che, molti lo ignorano, ha radici altrettanto affondate nei secoli”.
Spalazzi diventa un ‘pinsaiolo’ provetto. “Sono tornato più volte nella Capitale, ho frequentato scuole illustri, ho operato al fianco dei migliori esponenti della scuola romana. Ho visto che c’era materia e campo per proposte realmente innovative. E, tornato a Sestri, ho aperto un primo locale, dove si veniva a gustare la Pinsa. Il successo avuto mi ha portato ad aprirne un secondo”.
Oggi ‘Santapizza!’ è ‘Vistamare’ in viale Mazzini, a pochi metri dal mare, per chi ha fretta e chi va in spiaggia ed è ‘Pinseria/Brasserie’, in viale Dante Alighieri, dove si può assaporare con la dovuta calma. C’è la vendita al taglio e si organizzano trasporti e consegne.
“Siamo stati e siamo ancora la prima pinseria di Sestri Levante. Vi portiamo a casa l’autentica Pinsa Romana, quindi leggera, gustosa e dal sapore di grano antico”. Una spiegazione si impone per convertire al nuovo credo anche i più intransigenti tra gli ortodossi.
“La Pinsa si distingue dalla pizza per la digeribilità al 100 per cento, garantita dalla lunghissima lievitazione, dall’alta idratazione e dalla scelta di ingredienti di primissima qualità”. Spalazzi illustra con l’entusiasmo del catecumeno: “Se ci si ferma all’apparenza non si coglie la totale diversità. Si cuoce per ore non per minuti, il che tra le altre cose permette di gustarla anche fredda, cosa che con la pizza – non vorrei aprire una guerra di religione – è impossibile a meno che non abbiate un palato rovinato e uno stomaco d’acciaio. Aggiungo che io spesso tornando a casa mi porto le pinse che non sono state vendute. Le metto in frigo e la mattina me le mangio per colazione. E non sono certo uno di bocca buona…”.
Una volta accettato questo concetto, il resto consegue con impeccabile logica. “L’impasto è duttile quanto quello della pizza, la base permette ogni variazione possibile. C’è ricchissima scelta tra pinse classiche, bianche, speciali, ripiene. Nelle classiche trovate Margherita, Napoli, 4 Stagioni, Marinara, 4 Formaggi e qualsiasi altro contorno regga la pietanza ‘cugina’. Nelle Bianche, ossia senza polpa di pomodoro, ci si può sbizzarrire con altrettanta libertà. E poi ci sono le Speciali e le Farcite”.
Spiccano una ‘Cacio e Pepe’ che ha l’aria di essere la perversione finale dell’inveterato ghiottone e una ‘Delicatessen’ che appare come l’arma ‘Fine del mondo’ contro i vegani (che però vengono salvati dalla Pinsa Vegan…). “Se è per quello, abbiamo pensato anche a un impasto senza glutine. E poi non ci limitiamo alle Pinse. Ci sono i nostri dolci, tutti fatti in casa. Abbiamo in questi anni allargato l’offerta a fritti sempre di nostra produzione, all’asado della tradizione a cottura lenta su pietra, ai nostri panini a lunga lievitazione e hamburgers artigianali”.
Chef Riccardo all’attacco delle paninoteche industriali? <L’importante è conservare l’impronta artigianale. Il panino non l’hanno inventato gli yankee, e noi abbiamo una qualità che loro possono solo sognare. Per chiudere il cerchio abbiamo un’ampia carta di bibite, birre artigianali e vini per accompagnare come si deve le pinse”.
Ecco la differenza tra la massificazione e la realizzazione artistica, l’attenzione ai dettagli. Certo, quando arriva la bufera almeno nel marketing bisogna copiare i maestri anglosassoni. “In questi mesi di chiusure e riaperture spesso a casaccio ci siamo tenuti in piedi grazie al take away. Con piatti che richiedono diverse ore di preparazione non avremmo potuto farcela altrimenti”.
Spalazzi però non si unisce allo stuolo di ristoratori che si stracciano le vesti per i danni causati dalla pandemia. “Hanno solo reso ancora più dura l’uscita dal labirinto creato da leggi, leggine, imposte, balzelli vari. Il nostro settore era tartassato anche prima. Io ho dieci persone che lavorano nei due locali, cinque per parte, ed a ognuno di loro al momento di consegnare lo stipendio faccio vedere la differenza tra quanto ricevono e quanto mi costano, una differenza che è lo Stato a creare, non il sottoscritto”.
Per fortuna che la Pinsa prosegue nella sua marcia di conquista dell’italico gusto. La sorella povera si è tolta gli abiti da Cenerentola. E focaccia e pizza passano da parenti prevaricatori a cugine benevole in un rapporto realmente paritario. La Pinsa ce l’ha fatta. In ‘Ladri di Biciclette’ padre e figlio entrano in una trattoria dove non servono pinsa perché “siamo un ristorante non una pizzeria’, spiega il cameriere nel tono più sprezzante possibile. Oggi il piccolo Enzo potrebbe replicare a muso duro: “Aggiornati, bacucco!”.