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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

Salvare l’industria europea è compito anche dei sindacati. Perché l’approccio della Cgil è rivolto al passato

Oggi non è tempo di lotta di classe, ma di un patto del lavoro con al centro la salvezza e il futuro delle fabbriche, realizzato tra i sopravvissuti ai venti sconvolgenti della globalizzazione
Sul piano dell'occupazione, la Liguria è al primo posto nazionale (dati 2023) per la crescita rispetto al periodo pre-Covid
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di ANTONIO GOZZI

I temi del lavoro nelle economie occidentali avanzate si porranno con sempre maggiore forza, investiti come saranno dalle trasformazioni epocali in atto (tecnologiche, demografiche, economiche, geopolitiche).

L’Europa in particolare dovrà affrontare gravi processi di deindustrializzazione e una confrontation competitiva con le altre grandi aree economiche del mondo, USA Cina in particolare, che avranno inevitabili conseguenze occupazionali.

Sembra vana anche la speranza che il “green deal” e le nuove attività connesse alla transizione energetica e climatica compensino in Europa le perdite di posti di lavoro registrati nelle attività industriali tradizionali e di base, se si considerano lo strapotere e l’overcapacity cinese in tutte le tecnologie rinnovabili (litio, batterie, pannelli solari, inverter, pale e turbine eoliche, auto elettriche ecc.) che straccia i prezzi di tutti questi beni rendendo impossibili, a meno di carissime sovvenzioni pubbliche, le produzioni da noi.

In questo contesto, per molti versi drammatico per tante imprese e tanti lavoratori, sarebbe lecito aspettarsi anche da parte delle Organizzazioni sindacali un approccio nuovo, moderno, pragmatico e non ideologico, volto a rendere la transizione compatibile e sostenibile anche dal punto di vista economico e sociale.

Purtroppo finora non è stato così, e l’estremismo ambientalista, spesso anticapitalista e anti-impresa, ha influenzato vasti settori del sindacato che hanno del tutto sottovalutato o addirittura negato gli effetti perversi e distruttivi per l’industria e i suoi occupati, specie nei settori di base e più energivori (acciaio, chimica, carta, vetro, ceramica, fonderie ecc.), di un approccio ideologico e dogmatico alla transizione.

Spesso il sindacato ha declinato acriticamente l’approccio europeo iper-regolatorio, capace solo di definire obiettivi ambiziosissimi di decarbonizzazione senza chiarire come e con quali risorse raggiungerli praticamente.

A fronte di un’enormità di posti di lavoro persi (si pensi al settore dell’automotive) hanno fatto riscontro un silenzio totale e l’incapacità di proporre soluzioni, al di là della richiesta di assistenza pubblica e ammortizzatori sociali, come pure di indicare politiche industriali.

Ma non è soltanto il green deal il terreno di propaganda estremista di settori consistenti delle organizzazioni sindacali europee, specie di quelle di ispirazione socialista. Spesso si è avuta la sensazione che il sindacato si sia messo a fare più politica che sindacato.

In particolare il lancio dei 4 referendum della Cgil su licenziamenti, contratti a termine, sicurezza sembra figlio di uno sguardo rivolto al passato piuttosto che ai problemi dell’oggi e del futuro del mondo del lavoro.

Abolizione del Jobs Act, reintroduzione dell’articolo 18, enfasi su una precarizzazione del mondo del lavoro, che in realtà è molto più nel mondo dei servizi che nell’industria, sono gli elementi principali della linea politica della Cgil che non guarda in faccia la realtà e sembra immaginare un mondo del lavoro degli anni ’70 del secolo passato.

Si pretende di reintrodurre la giusta causa del licenziamento quando praticamente in tutta Europa vige la norma, introdotta in Italia dal Jobs Act, dell’indennizzo inversamente proporzionale alla fondatezza delle ragioni del licenziamento.

Che senso ha insistere su quello che rimane del Jobs Act dopo sentenze a tutti i livelli e non vedere che oggi sono i dipendenti che “scelgono l’azienda” solo che abbiano le professionalità giuste?

Sui contratti a tempo determinato o indeterminato e sulla presunta precarizzazione del rapporto di lavoro dell’industria si fa dell’ideologia e non si è capaci di leggere i dati dell’Istat, che invece segnalano una forte crescita dei rapporti a tempo indeterminato e una progressiva trasformazione dei contratti a tempo determinato in contratti a tempo indeterminato. Tutto il contrario della precarizzazione.

E d’altro canto ciò è perfettamente logico e coerente con l’attuale situazione del mercato del lavoro. Vi è un’enorme carenza di mano d’opera disponibile per le imprese industriali, si parla di 400.000 posti di lavoro non coperti. Le imprese non vedono l’ora di stabilizzare il rapporto con risorse umane formate per fidelizzarle e impedire che vadano in altre aziende e il contratto a tempo determinato non è che un contratto di ingresso che le imprese rendono stabile appena possibile.

Sul tema della sicurezza sui luoghi di lavoro, tema cruciale e sul quale non si lavorerà mai abbastanza, colpisce l’errore di semplificazione che spesso accompagna la strategia della Cgil.

Ha senso indurire ancor di più l’approccio sanzionatorio collegato a norme formali omologhe per tutti gli ambiti, che non distingue le produzioni di beni da quelle dei servizi? Non è più logico e moderno un approccio sostanzialista e cioè attento all’introduzione delle più moderne tecnologie per la sicurezza, di imitazione delle buone prassi organizzative? Un approccio che, tra l’altro, esalta il confronto cooperativo all’interno dell’azienda.

Ha senso fare del “ricorso agli appalti” la prova della mostruosa malvagità dell’industria e dell’impresa capitalistica? Si vuole dire che le imprese dovrebbero assomigliare ai kombinat sovietici al cui interno si produceva tutto quello che poteva servire anche solo in piccola scala e per un tempo ridotto.

I famigerati appalti sono fatti spesso con ditte super specializzate. È credibile che una grande società come l’Enel ricorra a ditte esterne per risparmiare sulle assunzioni?

Nulla si dice invece sul livello infimo e residuale della formazione professionale soprattutto al sud. Ma questo interroga i sindacati, tutti, che gestiscono o cogestiscono questi ambiti. O ancora, nulla si dice sul livello miserabile dei centri per l’impiego che consegnano, quando possibile, ai giovani un lavoro quale che sia perché impossibilitati a conoscere dove c’è lavoro richiesto, sicuro e ben remunerato.

In generale l’approccio necessario a mio giudizio, anche da parte sindacale, per far sì che l’industria sia sempre più al centro dell’attenzione è un approccio cooperativo. Oggi non è tempo di lotta di classe, ma di un patto del lavoro con al centro la salvezza e il futuro delle fabbriche, realizzato tra i sopravvissuti ai venti sconvolgenti della globalizzazione.

Inclusione via welfare, partecipazione dei lavoratori agli utili di impresa, sostegno alle pari opportunità e al lavoro femminile, formazione, quote di salario legate ai contratti aziendali e al raggiungimento di obiettivi quali-quantitativi sono i grandi temi del futuro.

Anche il Sindacato deve guardare avanti e non indietro.

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