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Giovedì 18 dicembre 2025 - Numero 405

Robert Redford era molto lontano dal progressismo hollywoodiano dell’epoca social

Fu l’attore a definire Trump, nel 2019, un “aspirante dittatore” in un editoriale pubblicato dal Washington Post. Una frase che allora poteva sembrare esagerata, ma che con il tempo ha assunto tutt’altro peso e significato
Robert Redford in "Tutti gli uomini del presidente"
Robert Redford in "Tutti gli uomini del presidente"
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Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.

di MATTEO MUZIO *

Se c’è un volto che più di altri ha rappresentato il progressismo a Hollywood, quello è Robert Redford. Nonostante il suo aspetto da tipico americano anglosassone – con radici familiari arrivate negli Stati Uniti prima della Guerra Civile e passate dal Connecticut al Texas fino alla California, dove lui nasce nel 1936 – Redford ha sviluppato fin da giovane un forte amore per la natura. Forse proprio questo è stato il primo seme della sua visione progressista.

Dopo gli inizi a Broadway e in televisione, Redford diventa presto un’icona di sinistra sul grande schermo. Un esempio emblematico è il western revisionista Corvo Rosso non avrai il mio scalpo (1972, in originale Jeremiah Johnson), che racconta con sensibilità i rapporti tra coloni bianchi e nativi americani. Troppo elencare tutte le sue pellicole di impegno civile – da I Tre Giorni del Condor (1975), che denunciava il lato oscuro della CIA, a Gente Comune (1980), con cui vinse il suo unico Oscar come regista – ma ciò che più conta per valutare la sua eredità più duratura è il suo impegno politico e culturale.

Negli anni ’80, infatti, Redford sceglie di investire i guadagni dei suoi film per fondare il Sundance Institute, un centro di formazione dedicato a giovani registi e sceneggiatori per crescerli al di fuori dei canoni hollywoodiani, due anni dopo aver creato il Sundance Film Festival, che sarebbe diventato una vetrina internazionale per un cinema indipendente e innovativo. In questo modo Redford si è affermato come figura chiave in un momento in cui, a Hollywood, il potere si stava spostando dai grandi studios agli attori. Questa transizione era stata resa possibile anche dalle battaglie sindacali degli anni ’60, guidate da Ronald Reagan, futuro presidente e sostenitore di idee politiche opposte a quelle di Redford, ma che portò a termine un’importante battaglia sindacale per riconoscere agli attori un compenso anche per ogni volta che i loro film venivano trasmessi in tv o al cinema. Accordo storico che poi è stato aggiornato, nel corso degli anni, anche alla trasmissione su videocassetta e Dvd e alle piattaforme di streaming online.

A differenza di Reagan, però, Redford non scelse mai di candidarsi o entrare in politica attiva, anche se sarebbe stato un perfetto contraltare progressista. Preferì diventare un punto di riferimento per chi aveva meno voce, senza dover scendere a compromessi: ambientalisti, nativi americani, minoranze etniche e comunità LGBTQ+. Lo fece in anni in cui esporsi poteva significare perdere popolarità o contratti, ben lontano dalle dichiarazioni “di facciata” tipiche delle star di oggi. Nei suoi film continuò a portare avanti la sua militanza: basti pensare a The Company You Keep (2012), dove interpreta un ex membro del gruppo radicale Weather Underground, con una riflessione non banale sul significato della lotta armata e i suoi scarsi risultati.

Anche dopo il ritiro dalle scene, la sua figura rimase un simbolo: nella miniserie Watchmen, uscita nel 2019 appare come presidente democratico in una realtà alternativa, un sogno rimasto tale nella vita reale. Già dal 2016, con l’ascesa di Donald Trump, il progressismo hollywoodiano di cui è stato antesignanoo è stato spesso percepito come elitario e distante dai problemi concreti della gente. Redford, però, a ben guardare, non ha mai incarnato questo stereotipo, perché ha dedicato gran parte della sua carriera a creare uno spazio diverso, dove far crescere nuove generazioni di artisti indipendenti. Nulla di più lontano quindi dalle prese di posizione a favor di camera di molti suoi giovani colleghi che spesso lasciano trasparire una profonda ignoranza sui tema sui quali ci si pretenderebbe esperti

Oggi, il suo nome torna alla memoria anche per il contrasto con Trump: fu infatti lui, nel 2019, a definirlo un “aspirante dittatore” in un editoriale pubblicato dal Washington Post. Una frase che allora poteva sembrare esagerata, ma che con il tempo ha assunto tutt’altro peso e significato, quasi da profezia.

(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)

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