di DANIELE LAZZARIN *
Forse qualcuno ricorda il documentario ‘A personal Journey with Martin Scorsese Through American Movies’, un vero atto d’amore del grande Marty per quel cinema che nel Novecento ha creato una nuova epica, che ha inseguito il “sogno americano” per poi vederne la trasformazione in “incubo”, che ha codificato la grammatica e i generi del cinema, che ha creato nuove tipologie di eroi e di antieroi, ma soprattutto ha esaltato l’arte del raccontare, facendone contemporaneamente un grande affare: ritroviamo tutto questo, senza neppure il didascalismo che vi era ad esempio in Hugo Cabret, nel blockbuster d’autore Killers of the Flower Moon, dove Scorsese nuovamente osa, dopo The Irishman – un vero compendio delle sue precedenti gangster stories, ma evidentemente non il suo testamento – ciò che pochi registi nelle sale cinematografiche si possono permettere: il film ha una durata di quasi tre ore e mezza, e non sono mancate a questo proposito critiche per la sua lentezza e per la ripetitività di alcune scene, imputabili a un format da Apple TV+, essendo il film inizialmente destinato soprattutto allo streaming, con un successivo cambio di strategia distributiva. Da queste accuse l’ottantunenne regista, sostenuto dalla sua fedele e pluripremiata collaboratrice al montaggio Thelma Schoonmaker (Leone d’oro alla carriera 2014), si è energicamente difeso sottolineando quanto per lui il tempo sia prezioso e sostenendo che il tempo del suo film è il tempo del cinema.
Epico e drammatico, metacinematografico ma improntato a una storia vera, narrata nel saggio-thriller del giornalista David Grann tradotto in italiano con il titolo “Gli assassini della terra rossa”, adattato e sceneggiato dallo stesso Scorsese e da Eric Roth, Killers of the Flower Moon sembra proprio esprimere una riflessione sul tempo e presenta la circolarità e gli atti di una tragedia: inizialmente gli anziani della nazione indiana degli Osage, confinati in una riserva in Oklahoma, compiangono con una cerimonia la fine del tempo del loro popolo, con l’avvento del mondo dei bianchi; ma nel finale i loro discendenti con una danza formano l’immagine di un grande fiore, richiamando ciò che era avvenuto nella primavera del 1921, quando iniziò un regno del terrore e molte vite degli Osage vennero spazzate via come i piccoli fiori di aprile vengono travolti da piante più grandi sotto la luna piena di maggio, che illumina le colline e le praterie dell’Oklahoma; tuttavia, così come nelle eterne vicende della Natura tutto muore per ritornare, le tradizioni degli Osage, che le riflettono, rinascono.
All’interno di questa circolarità subentra quasi in tre atti la storia dell’uomo bianco, contrassegnata dall’avidità, dalla violenza, infine dalla parziale giustizia, ma sempre dall’inganno; nelle terre degli Osage sgorga il petrolio ed essi si ritrovano improvvisamente ricchi, ma quasi tutti vengono subito messi sotto un’interessata tutela legale e diventano preda di una serie di avventurieri, sbandati e criminali della “nuova frontiera”.
Due protagonisti assoluti del cinema di Scorsese, qui insieme, si contendono il ruolo di protagonista: Robert De Niro è William King Hale, un ricco latifondista e autorità locale, un “re” che gode di popolarità anche fra gli indiani per la sua influenza e la sua apparente benevolenza. La sua figura è monolitica nella doppiezza, nella frode e nel delitto, talora quasi grottesca, ma con un’intensità shakespeariana; egli intende impadronirsi delle ricchezze degli Osage eliminandoli (è appunto convinto che il loro tempo sia finito), e per questo induce il nipote Ernest Burkhart, interpretato da Leonardo DiCaprio, a sposare Mollie, interpretata da Lily Gladstone, una donna Osage proprietaria con la madre e le sorelle di un ricco patrimonio; Burkhart ama i soldi e le donne ed è già innamorato di Mollie, ma si piega ai piani dello zio, un mefistofelico tentatore, che arriva perfino a sottoporre il nipote a una punizione corporale in una sorta di cerimonia massonica per vincere le sue ultime fragili resistenze.
L’atmosfera richiama il tema della colpa e altri momenti dei film di Scorsese, ma qui non ci sono “bravi ragazzi”. DiCaprio mantiene costantemente la fissità di una maschera, immagine della banalità del male, e sembra negare fino in fondo anche a se stesso il fatto di stare avvelenando la moglie e madre dei suoi figli. Mollie, o per meglio dire Lily Gladstone, appare, con il suo distacco e con il suo appartenere a un altro mondo, l’ultima interprete e testimone della tradizione e della spiritualità degli Osage, ma riesce nonostante questo a mettere in moto una dinamica che porterà all’intervento della nascente FBI, all’incriminazione e al processo di zio e nipote.
Interessante l’interpretazione breve, ma aggressiva, di un altro premio Oscar, Brendan Fraser, nella parte di avvocato di Hale. Del resto tutto il film si avvale di un team eccezionale, dalla colonna sonora di Robbie Robertson, che sottolinea con un ritmo percussivo lo scorrere del tempo, alla fotografia di Rodrigo Prieto, che crea giochi di luci e ombre, quasi sempre naturali, sul viso dei personaggi per esprimerne la psicologia, e usa toni sempre più cupi e crepuscolari per sottolineare l’evoluzione drammatica della narrazione, con il tentativo disperato degli Osage di illuminare a giorno le strade di Fairfax per vincere la loro paura e i loro dubbi.
Lo sfondo storico dell’America di quegli anni è richiamato con brevi sequenze in bianco e nero, girate con una mitica cinepresa di Scorsese, che riproducono il modo in cui i cinegiornali dell’epoca riportavano gli scontri razziali e rappresentavano il Ku Klux Klan. Vi è poi una coda sorprendente: non le classiche didascalie finali, ma la ricostruzione di un dramma radiofonico trasmesso anni dopo, in cui si celebra l’azione degli agenti federali; in realtà l’FBI usò in diverse occasioni a fini promozionali questo episodio, nascondendo il fatto che molti delitti restarono impuniti in quella che oggi è l’Osage County. E interviene in scena a porci degli interrogativi Scorsese stesso, ricordando che nel necrologio di Mollie, morta anni dopo, non vi è alcun riferimento agli omicidi. È uno Scorsese diverso, quello di Killers of the Flower Moon, non privo di autoironia, che ci lascia con un’incertezza e sembra interrogarsi sui compiti di chi indaga, racconta e crea miti.
(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)