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di MATTEO MUZIO *
Il 25 agosto 2025, il presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo che impone un anno di carcere per chi brucia la bandiera americana. La misura, presentata come difesa del “simbolo più sacro della nazione”, ha immediatamente sollevato un’ondata di critiche da parte di giuristi, attivisti e cittadini, che la considerano una violazione flagrante del Primo Emendamento.
Bruciare la bandiera è da decenni uno degli atti più controversi e simbolici della protesta politica negli Stati Uniti. Ma è anche, secondo la Corte Suprema, un’espressione protetta dalla Costituzione. Lo ha stabilito nel 1989 con la storica sentenza Texas v. Johnson, in cui Gregory Lee Johnson, attivista, fu arrestato per aver bruciato una bandiera durante la Convention Repubblicana del 1984 a Dallas. La Corte, con una maggioranza esile di 5 a 4, stabilì che “il governo non può vietare l’espressione di un’idea solo perché la società la considera offensiva o sgradevole”.
L’ordine esecutivo di Trump si scontra frontalmente quindi con Texas v. Johnson. La sentenza afferma chiaramente che la dissacrazione della bandiera, per quanto provocatoria, è una forma di “condotta espressiva” tutelata dal Primo Emendamento. Punirla penalmente equivale a censurare un messaggio politico. La Corte ha anche respinto l’argomento secondo cui il gesto inciterebbe alla violenza, sottolineando che “l’offesa non è sufficiente per giustificare la repressione dell’espressione”.
Tra i cinque voti che formarono la maggioranza nella sentenza Texas v. Johnson, spicca quello del giudice Antonin Scalia. Nominato da Ronald Reagan e noto per la sua visione conservatrice e originalista della Costituzione, Scalia era personalmente contrario al gesto di bruciare la bandiera. Proprio per la sua fedeltà al testo costituzionale, votò a favore della libertà di espressione.
In diverse occasioni pubbliche, Scalia ha raccontato con ironia il suo dilemma. Durante un evento alla Union League di Philadelphia, disse: “Se fosse per me, metterei in prigione ogni hippy con la barba che brucia la bandiera americana. Ma non sono un re.” E in un’intervista del 2012 con il giornalista inglese Piers Morgan, ribadì: “Se fossi re, non permetterei a nessuno di bruciare la bandiera. Ma abbiamo un Primo Emendamento, che protegge proprio la libertà di criticare il governo.” Queste parole, pronunciate con il suo stile tagliente e teatrale, rivelano una verità profonda: la Costituzione americana protegge anche ciò che ci ripugna, perché è proprio nel dissenso che si misura la forza di una democrazia.
Scalia non scrisse un’opinione separata nella sentenza, ma il suo voto fu decisivo. E il suo esempio resta un monito: la fedeltà ai principi costituzionali non deve piegarsi alle emozioni o alle pressioni politiche.
Non è la prima volta che Trump propone misure simili. Già nel suo primo mandato aveva invocato punizioni severe per chi profanava la bandiera. Ma oggi, con un clima politico ancora più polarizzato, l’ordine esecutivo assume un significato più profondo: è un test sulla tenuta delle istituzioni democratiche e sulla capacità della società americana di tollerare il dissenso. E al momento il Congresso a maggioranza repubblicana sembra non esercitare la sua influenza. Né tantomeno sembra farlo la Corte Suprema.
La bandiera americana è un simbolo potente, ma non sacro. È il riflesso di una Nazione che ha scelto di proteggere la libertà, anche quando è scomoda, provocatoria o impopolare. Punire chi la brucia non rafforza il patriottismo: lo svuota. Come pensava Antonin Scalia, la vera fedeltà alla Costituzione consiste nel difendere i diritti di chi non la pensa come noi. Questo però a Trump non interessa minimamente.
(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)