Seduta su un divanetto di Wylab, la signora più famosa nel dietro-le-quinte dei teatri genovesi sfoglia con un’aria soddisfatta il libro ‘… con i piedi fortemente poggiati sulle nuvole’. Si capisce subito che per lei non è un volume come tutti gli altri. E’ un album dei ricordi. Un pezzo di vita. La sua vita.
Pina Rando e il Teatro dell’Archivolto, praticamente la sua creatura artistica. Attende l’intervista tra una foto di Giorgio Gallione, partner ultratrentennale di questa straordinaria avventura culturale, una di Giorgio Scaramuzzino, altro volto arcinoto della compagnia, una di Claudio Bisio. Una del ‘suo’ Teatro Modena di Sampierdarena, che ha riportato agli antichi splendori tra mille sacrifici, economici e non solo. I primi vent’anni dell’Archivolto sono raccolti in queste centotrenta pagine pubblicate da Feltrinelli, ma sentirseli raccontare dalla viva voce di una delle sue protagoniste è un’esperienza molto più emozionante.
Pina Rando dà calore al colore delle foto, dà sostanza alla narrazione. Parliamo di quarant’anni di carriera, sempre vissuta nel retropalco. “Non sono mai stata né attrice, né autrice, né regista. Una brava organizzatrice, invece, quello sì”.
C’è tutta ‘la Pina’ (chi la conosce bene la chiama così), in questa frase: la sua modestia, il suo saper dialogare con gli artisti, l’essere la parte razionale di un mondo concepito per stupire, sbalordire, incantare. Ci vogliono gli uomini di spettacolo ma anche quelli dei conti. E ‘la Pina’, nel suo lavoro, è stata una sergente di ferro.
‘Organizzatrice’, dice lei: cioè amministratrice prima della compagnia e poi del teatro, curatrice dei rapporti con le istituzioni, ricercatrice instancabile e straordinariamente efficace di sponsor, impresaria degli spettacoli prodotti. Persino cuoca della compagnia, in virtù di indubbie doti culinarie. Ma mentre questa perizia è riservata ad amici e addetti ai lavori, le capacità gestionali sono sotto gli occhi di tutti.
Il capolavoro è arrivato in fondo. Pina Rando (nella foto in basso è ritratta da Bepi Caroli) ha chiuso la sua carriera da direttrice dell’Archivolto – che era iniziata come collaboratrice nel 1979 – facendo confluire la sua ‘creatura’ dentro il Teatro Stabile di Genova. Una fusione che ha consentito al principale ente di prosa della città di potersi finalmente fregiare del titolo di ‘Teatro d’interesse nazionale’ (il top nella classifica stilata dal Ministero per i Beni Culturali), e al gruppo di Sampierdarena di salvare diciotto posti di lavoro, tutti meno uno.
Quello ‘della Pina’. “Ho preferito farmi da parte dopo aver concluso l’operazione più importante e delicata che mi fosse mai capitata. Era giusto che fosse così. Ora i miei ragazzi sono al sicuro e io posso andare in pensione e intanto ‘inventarmi’ qualcos’altro. Torno nella ‘mia’ Chiavari (da 25 anni abita a ridosso della Collina delle Grazie), un posto stupendo ma che ho sempre vissuto molto poco”.
Non è mai stata attrice. Ma ha fatto il più bel colpo di teatro. Un’uscita di scena in grande stile. Come una vera signora. La signora più famosa del dietro-le-quinte.
Partiamo dalla fine, l’Archivolto che confluisce nello Stabile. Una scelta sofferta, ma necessaria.
“La crisi vera inizia nel 2013, quando Comune e Regione riducono i finanziamenti e, contemporaneamente, viene a mancare Riccardo Garrone, che è sempre stato un nostro estimatore e importantissimo sostenitore. Rischiamo la ‘rimessa’ e ci salviamo per il rotto della cuffia grazie a enormi sacrifici. Ma è qui che iniziamo a pensare, insieme a Giorgio Gallione e a tutti i ragazzi, con cui ho sempre condiviso ogni scelta, che difficilmente potremo restare in piedi da soli nel futuro. Inizia a farsi strada l’idea di confluire nello Stabile. La propongo all’allora direttore Carlo Repetti, che però è molto prudente e consiglia di aspettare. Così andiamo avanti in mezzo alla tempesta”.
I finanziamenti scendono, mancano contributi privati, e sempre più ci si rende conto che non si può tenere in piedi un teatro senza aiuti.
“Assolutamente vero. La macchina-teatro è troppo complessa per stare in piedi con le sole sue forze, ovvero la biglietteria, le produzioni vendute in giro e gli affitti di sala. Certo, sono importanti. Ma per produrre cultura con la ‘C’ maiuscola, come abbiamo sempre cercato di fare noi, il contributo pubblico è fondamentale. In più noi avevamo un ‘Mecenate’ che amava moltissimo il teatro in generale e il Modena in particolare. Nel 2014 e nel 2015, comunque, andiamo avanti e siamo costretti, su proposta dei ragazzi e non della direzione (un rovesciamento di fronti assai inedito) a ricorrere agli ammortizzatori sociali. Tra stipendi ridotti e sacrifici di ogni sorta, si arriva al pareggio di bilancio. Ma l’ossigeno nelle casse è sempre meno, e anche le energie iniziano a mancare, per quanto il mio gruppo sia stupendo e in ogni occasione abbia sempre gettato il cuore oltre l’ostacolo. E, insieme al cuore, anche tutto il resto che aveva. Così, nel 2017, con l’arrivo del nuovo direttore dello Stabile Angelo Pastore, siamo riusciti a fare il grande passo, diventando un’unica realtà”.
A pesare sul bilancio c’è, da sempre, il costo enorme sostenuto per la ristrutturazione del Modena.
“Negli anni siamo riusciti a rifinanziare il mutuo. Ma ogni bilancio, tra rate di rientro e interessi relativi, si apriva puntualmente con un meno 250mila euro. Per questo arrivare in fondo è sempre stato un miracolo”.
Riaprire il Modena: però ne è valsa la pena, vero?
“Questo continuerò a dirlo sempre. La prima volta, vidi il Modena, appena nell’atrio, nel 1987. Il sindaco di allora era Campart. Ci aveva invitato a una manifestazione per riaprire la sala, nella piazza antistante. Nulla più di una vista complessiva. Poi, prima dell’arrivo di Sansa a Palazzo Tursi, il discorso entra nel vivo. Per rifare la struttura occorrono tre miliardi di lire. Io vado da Sansa e gli faccio una proposta: se il Comune finanzia una parte dei lavori, io m’impegno a trovare i finanziamenti per tutto il resto. E così viene fatto. Noi otteniamo aiuti da sponsor e fondazioni, ci mettiamo sulle spalle il ‘famoso’ mutuo che ci ha sempre fatto compagnia, e il 3 marzo del 1996 giro per la prima volta la chiave nella serratura”.
Chissà cos’ha trovato, dopo anni di chiusura…
“Ho fatto due passi in sala e sono stata assalita dalle zecche. Carcasse di piccioni morti. Un odore che non le dico. Una ferita nel cuore di Sampierdarena. Quartiere già ampiamente ferito di suo, per tanti altri motivi. Ma è stato amore a prima vista, mio e di Giorgio. Ci siamo detti: qui bisogna fare i lavori strutturali, ma anche riportarlo all’antico splendore. E, con coraggio, ci siamo imbarcati in quest’avventura. Anni dopo, nell’ex mercato, abbiamo realizzato una seconda sala, la Sala Mercato appunto. E oggi il Modena è un teatro antico ma al tempo stesso moderno, funzionale, completamente attrezzato”.
Oltre a un punto di riferimento per Sampierdarena.
“Quella parte di delegazione è rinata, grazie al Modena. Abbiamo creato un perimetro felice, abbiamo convinto i genovesi a ‘varcare il muro’ e venire dal centro verso il ponente. Un po’ più in là rispetto al Modena, però, la situazione rimane molto delicata e critica, è inutile nasconderlo”.
Non è stato solo il teatro nuovo a richiamare, ma anche il livello degli spettacoli.
“E’ chiaro. Giorgio è un regista di fama nazionale e ha inventato un teatro che prima non c’era. Con la scelta di portare alcuni grandi classici della narrativa sul palcoscenico. Il primo fu Stefano Benni, poi ne sono seguiti tanti altri. L’Archivolto ha sempre fatto un teatro che non faceva nessun altro. E questa, a ben vedere, è sempre stata la peculiarità di Genova. Che è davvero la città dei teatri. L’unica dove il ‘capocomico’ portava avanti la sua idea, componeva il suo cartellone, e questo era completamente diverso da tutti gli altri. Penso a Tonino Conte con gli spettacoli itineranti della Tosse, a Ivo Chiesa con i grandi classici dello Stabile, a Savina Savini con le proposte leggere e i musical al Politeama. In più, noi e la Tosse abbiamo prestato sempre grande attenzione anche ai ragazzi, con le stagioni di teatro apposite, realizzate grazie al lavoro di Giorgio Scaramuzzino e dei suoi collaboratori”.
Come funziona la fusione con lo Stabile?
“E’ pienamente operativa dal 2018 (nella foto di Paola Leoni, i due staff e l’assessore Cavo). Nel 2017, abbiamo avuto degli accordi sui biglietti e gli abbonamenti. Oggi si chiama Teatro di Genova e dispone di quattro sale: Corte, Duse, Modena e Mercato. Il direttore è Angelo Pastore, già guida dello Stabile da qualche anno, dopo esser succeduto a Carlo Repetti. Io ho lasciato perché preferivo farmi da parte. Nessuno me lo ha chiesto, è stata una scelta mia. Ma volevo che Pastore potesse lavorare tranquillo. I consulenti artistici sono Marco Sciaccaluga e Giorgio Gallione, due personalità che si completano perché hanno idee di teatro completamente differenti e insieme la somma è preziosa. Quanto a me, interessava soprattutto salvare i nostri diciotto ragazzi. E ci siamo riusciti. In dote allo Stabile abbiamo portato i nostri finanziamenti, mentre i debiti sono stati rifinanziati e dilazionati. La situazione è sana. In più, Genova si può finalmente fregiare del titolo di ‘Teatro d’interesse nazionale’ che, alla prima occasione, era sfuggito, con il contorno di tante polemiche. Oggi, oltre ad avere la tradizione, la storicità, il prestigio, la scuola di recitazione, lo Stabile ha anche il doppio delle sale e molti più abbonati e spettatori”.
In quarant’anni ha salvato un teatro, riaprendolo. Poi una compagnia. Perché mollare?
“La considero una pausa. Ora è così. Me ne sto a Chiavari e mi godo la mia città, dove vivo da 25 anni, a ridosso della Collina delle Grazie. Da una parte vedo Chiavari e dall’altra Zoagli. E’ un posto incantevole. Certo, i ricordi sono tanti e me li porterò dentro per sempre. Sin da quando, nel 1979, sono entrata per la prima volta in quella saletta ‘off’ di Santa Brigida, per seguire mio marito che si dilettava a fare l’attore. All’epoca lavoravo a Milano. Vendevo pubblicità per i calendari. Nel fine settimana, arrivavo a Genova e passavo sabato e domenica in teatro. O meglio, in quella saletta. A poco a poco, mi è piaciuto talmente tanto che ho lasciato il lavoro in Lombardia e mi sono messa a tempo pieno a occuparmi dell’Archivolto. Guadagnavo in un mese quello che prendevo prima in quattro giorni a Milano. Ma ero felice”.
In tutto questo non abbiamo parlato dei Broncoviz, forse la pietra miliare della compagnia.
“Prima ancora ci fu l’incontro con Giorgio Gallione, al quale fui io a proporre di rilanciare l’Archivolto. E lui accettò con entusiasmo. Poi arrivarono questi cinque ragazzi usciti dalla scuola di recitazione dello Stabile. A pensarci oggi, sembra incredibile. Ognuno ha avuto una carriera eccezionale: Maurizio Crozza in televisione; la moglie Carla Signoris al cinema; Ugo Dighero e Mauro Pirovano in televisione ma rimanendo sempre fedeli anche al teatro; Marcello Cesena nella regia cinematografica e nella pubblicità. Si vedeva sin dai primi passi che avrebbero fatto il botto. Già dalla nostra prima tournée a Roma. Stavamo all’albergo De Petris, vicino a piazza Barberini. Ma invece di affittarci le stanze, ci avevano dato un’intera ala. C’era anche la cucina e io andavo a fare la spesa e facevo da mangiare per tutti. Oltre a fare l’impresaria e la promoter e a tenere ‘a bada’ gli artisti”.
Di qui è nata la sua fama di cuoca…
“Dicono che sia brava. Mi fa piacere. Anche se io ho sempre preferito il lavoro”.
Infatti vederla ferma sembra strano. Di recente è stata accostata al Teatro Cantero di Chiavari. Cosa può dire?
“Ho semplicemente detto che, se occorre, io sono disponibile a dare una mano, in base alle mie competenze. ‘Ico’ Dallorso, che conosco da tempo perché a Chiavari portavamo il teatro per ragazzi, mi ha detto che deve capire, insieme al suo socio, quale potrà essere il futuro della sala. Di più non so. Aspetto aggiornamenti e rinnovo la mia disponibilità”.
‘La Pina’ è una persona estremamente gentile. Ma anche molto seria, quando si parla di lavoro. Non una parola di più. Non una di meno. E’ stata ‘sulle nuvole’, insieme ai tanti artisti della sua compagnia, ma contemporaneamente con i piedi ben saldi per terra.
In un Paese di attaccati alla poltrona (il ‘cadreghino’, per rimanere a Genova) a tutti i livelli, il suo è un esempio più unico che raro. Eppure magnifico: mi faccio da parte a beneficio dei più.
Mi sacrifico per salvare gli altri.
Come nell’Alcesti di Euripide.
Teatro, guarda caso.
Ma pure vita vera. Una vita eccezionale.
ALBERTO BRUZZONE