di DANILO SANGUINETI
Alla faccia di quelli che pensano che la storia e il tempo evolvano solo in un senso. Se ci si guarda intorno non è impossibile trovare storie apparentemente minuscole, racconti che aprono prospettive promettenti, inquadrature audaci che ti fanno vedere il mondo con luci sempre cangianti.
La storia di minima (ma non infima) moralia di Ugo Campodonico che decide di risalire, oltre che le sue valli, la sua corrente. Salvare una razza bovina dall’estinzione, una stirpe circoscritta e quindi particolare, magari esigua rispetto alle grandi breed, rischia di venire archiviato come gesto minimo o di essere scambiato per un’azione di retroguardia. Invece contribuisce a dimostrare come niente sia scritto e come si possa anche partire dalle piccole cose per recuperare un rapporto più sano e più vero con il territorio e il proprio retaggio.
Il chiavarese Ugo Campodonico a un certo punto della sua vita prese una decisione coraggiosa: quella di invertire la rotta che sembrava spingerlo verso il mare e di andare alla scoperta di cosa c’era alle sue spalle, alla ricerca delle radici. In un’epoca che ha estrema necessità di azioni pronte e radicali condite da un pensiero realmente green – immaginare un futuro più accettabile badando bene che sia anche sostenibile – viene a pennello la Azienda Agricola Petramartina collocata in quel di Scabbiamara, una località che se non si sapesse far parte del comune di Rezzoaglio si potrebbe sospettare inventata da romanzieri come Cerami o Camilleri. Luogo decentrato per un eccentrico? No, base ideale per la seconda vita di mister Campodonico.
“L’azienda agricola è nata oltre vent’anni fa con l’obiettivo di salvaguardare e selezionare la razza Cabannina, bovino autoctono ligure a rischio di estinzione, attraverso la valorizzazione del prodotto esclusivo da essa ottenuto, il formaggio a latte crudo di sola cabannina ‘U Cabanin’”.
Benissimo per la rigorosa definizione della materia principale prodotta ma mister Ugo deve spiegare prima come c’è finito nell’apice del vallone che parte da Cabanne e si inerpica verso il Passo del Fregarolo e i contrafforti del Monte Gifarco. Lui viene dalla città, Chiavari nel dettaglio.
“Sì e no, perché io sono nato e cresciuto a Sant’Andrea di Rovereto. Che oggi è il quartiere residenziale ameno in collina che tutti conoscono, ma che nel 1957, quando sono venuto alla luce, era campagna. Alle medie, al non più esistente plesso scolastico Garibaldi, io ero etichettato come campagnolo perché provenivo da un posto avvertito come ‘altrove’. Rovereto era orti, terrazze coltivate e pure qualche stalla. Crescendo cambiava tutto, e in fretta. Il mio ‘paese’ gettò la zappa per il piccone, costruì ville, i tempi nuovi portarono turismo e io andai altrove a fare altro”.
Il tempo passa, Ugo Campodonico mette su famiglia, sposa Simona, mette su casa a Rapallo, arrivano due figli, ma non è completamente soddisfatto. “Avevo sempre la sensazione di non fare abbastanza. Di non sentirmi completamente realizzato, che, anche se mi ero sistemato, qualcosa da qualche altra parte mi chiamava…”.
Il suo pensiero correva ai monti, a un intero mondo che andava scomparendo. “La cultura contadina delle nostre valli era per me un patrimonio personale, un’eredità che non potevo permettere andasse perduta. E fu così che, all’alba del 2000, incappai nella mucca Cabannina. Studiai, incontrai gli allevatori, capii che presto sarebbero svaniti, loro e i loro animali. Consorzi, comunità montane, leghe, niente pareva funzionare”. Sembra un film americano. “Dissi a mia moglie se era pronta. Sapevo che era una mezza pazzia, ma dovevo farlo. Era il 2005. Arrivammo a Scabbiamara, c’era ancora qualche ‘indigeno’. Comprai terra, casa, stalle ed edifici per la lavorazione del formaggio. Era tutto abbandonato, quasi in rovina. Sistemai campi, abitazione, i magazzini. Avevamo pronto il nome, Petramartina, perché dagli archivi genovesi si sa che proprio qui nell’anno 1103 il monaco Alberto e sette confratelli del monastero di San Pietro in Ciel d’Oro a Pavia fondarono la cella di San Michele di Petramartina in località Villa Cella, sulla sponda destra dell’Aveto, una casa di preghiera e di assistenza ai pellegrini che transitavano da e per Roma diretti o provenienti dalla Pianura Padana”.
Non avevano pronta la materia prima, la mucca Cabannina. “Per forza. Il rischio di estinzione era altissimo. Partii con due vitelli, ossia con niente perché serviva ben altro per avviare l’allevamento”. In quell’anno risultavano censiti solo 120 esemplari, quindi eravamo oltre il rischio, la razza Cabannina era a un passo dalla condanna finale. “Perché con così pochi esemplari gli incroci sarebbero stati forzati e si sarebbe scivolati in generazioni di esemplari tutti consanguinei tra loro, con annesso decadimento della qualità genetica e a scendere del latte prodotto”.
Per fortuna qualcuno aveva fatto sfoggio di previdenza. “Ad inizio degli anni Ottanta il consorzio di allevatori aveva predisposto il congelamento di una quantità di sperma dei tori fecondatori in due bidoni di azoto liquido. Ottenni di poter usare una quantità. La fecondazione artificiale muoveva i primi passi, furono bravi a capirne per tempo le grandi possibilità che offriva”. L’inseminazione andò in porto e presto Campodonico poté contare su una nuova generazione di Cabannina dal pedigree immacolato.
“È la base della nostra azienda: la selezione mirata a ottenere soggetti perfettamente corrispondenti allo standard di razza con attitudine prevalentemente lattifera. Utilizzando semi prelevati da tori selezionati e stoccati nell’azoto liquido, si possono praticare accoppiamenti programmati per ottenere vitelli di alto pregio evitando consanguineità e conservando ceppi genetici originali all’interno della stessa razza. Non a caso l’organizzazione Slow Food riconoscendo il lavoro di selezione e salvaguardia praticato in questi anni ci ha assegnato il ‘Presidio della mucca Cabannina’. I meravigliosi vitelli che ogni anno nascono in azienda sono il miglior risultato ottenuto da un grande impegno lavorativo che sacrifica tempo e risorse alla nostra vita ma che ci gratifica indicandoci che la strada è quella giusta”.
Che sia dura possono testimoniarlo la signora Simona, complice del coniuge e convinta sostenitrice del consorte, i due figli (che hanno intrapreso strade diverse), tutti uniti in una famiglia che si divide tra Scabbiamara e Carasco, ‘quartier generale’ più vivibile nei mesi invernali. Dal 2010 l’azienda si ingrandì, perché i capi si moltiplicavano, i tipi di formaggio erano decine e l’offerta si ampliava. Servivano braccia, ma “ho cercato per mesi tra i ragazzi della zona. Niente, nessuno se la sentiva di affrontare un’esperienza così tosta”.
Ci sarebbe da spendere parecchie parole sul fatto, soprattutto considerando quanto avvenuto dopo… “Trovai due ragazzi dell’India. Due persone incredibili, subito coinvolte, serie, generose. Uno di loro si è sposato, ha avuto due figli che vanno a scuola qui, si è integrato totalmente. L’altro con il suo stipendio mantiene l’intera famiglia rimasta nel loro paese”. Un altro piccolo pezzo incastrato alla perfezione in un puzzle che sembra sempre più attraente, soprattutto ora che si guarda da una certa distanza.
“Le nostre mucche vivono per buona parte dell’anno al pascolo, intorno all’azienda, in comodi recinti dove possono alimentarsi con foraggio fresco e abbeverarsi a loro piacere. La produzione di latte è soddisfacente in termini quantitativi (dai 12 ai 22 litri al giorno a seconda del soggetto) ma in termini qualitativi non teme confronti, il latte infatti ha una notevole percentuale di grasso e proteine che lo rendono particolarmente adatto alla caseificazione. La longevità proverbiale di questa razza ci consente di aver dei soggetti che raggiungono anche 23/24 anni di età con alle spalle anche 15 lattazioni. Tutto ciò, rende la Cabannina ancora maggiormente presente nella nostra vita come insostituibile compagna di viaggio che ci segue nel nostro cammino ormai da chissà quante generazioni”.
Siamo quasi alla poesia, Ugo sfiora il lirismo parlando dei prodotti: “‘U Cabanin’ rinasce nel 2007 per intervento dell’Associazione Allevatori e della Camera di Commercio di Genova ed è l’unico e pregiato derivato dal latte crudo di Cabannina: ha forma cilindrica con facce piane da 17-19 cm e scalzo di 7-9 cm. Stagiona naturalmente, almeno due mesi nel fresco ambiente della Val d’Aveto. La pasta è compatta ed elastica, poco solubile, di colore dal bianco all’avorio con rade occhiature. All’olfatto evoca sentori lattici di burro e di fieno maturo accompagnati da nocciola e miele. Il gusto appena acidulo è estremamente saporito. Durante la maturazione può essere praticato un trattamento di superficie con olio di oliva allo scopo di evitare la formazione di muffe. Al termine della fase di maturazione il prodotto può essere immediatamente commercializzato oppure può essere ulteriormente stagionato”.
Non basta ancora? C’è il miele: “Alleviamo api che ci forniscono un ottimo miele, in esso sono racchiuse le essenze della Macchia Mediterranea e i profumi dei boschi incontaminati dell’Appennino Ligure. Le colonie di ‘Apis Mellifera Ligustica’, trasformano il nettare delle fioriture in delizioso miele, la nostra azienda lo estrae, lasciandolo intatto come si trova in natura, nel rispetto dei criteri fondamentali della nobile arte dell’apicoltura. I mieli prodotti sono: Erica, Acacia, Ciliegio, Castagno, Millefiori”.
Recupero e rilancio, Ugo Campodonico ha vinto la sua battaglia. Oppure no. “Il salvataggio è stato portato a termine. Ma non sono un idealista estremista, sono consapevole che occorre far convivere la passione con le esigenze materiali. Questi ultimi mesi sono molto ‘tosti’. I conti di luce, gas e di quanto non produciamo in loco crescono esponenzialmente. Io mi chiedo se gli enti preposti, se lo Stato si renda conto della situazione di noi allevatori e contadini. Non saremo fashion, non avremo le capacità di premere e di fare lobby come altre categorie, ma penso che meriteremmo una mano”.
Affermativo, senza discutere oltre. Quelli come Ugo sono segnalibri messi nel libro della cronaca, rimandano ad altri volumi, a passi ben precisi e importanti della nostra cultura. I fatti dell’incredibile pesante biennio che abbiamo vissuto sottolineano come niente sia scolpito nella pietra, che il determinismo sia ammaccato dalla realtà. Il futuro è un’ipotesi. Ci sono micro vicende che messe in fila dicono più dei racconti per e dei grandi. Uno che aveva la vista molto lunga, Pier Paolo Pasolini, disse: “C’è differenza tra sviluppo e progresso. E temo che in Italia si sia avuto molto del primo e poco del secondo”. Chissà che a questo tartassato grumo di roccia non convenga che diventi circolare oltre all’economia anche la storia. Che merita la esse maiuscola persino a Scabbiamara.