di DANIELE LAZZARIN *
Sette, forse troppi, sono i premi Oscar collezionati da ‘Everything Everywhere All At Once’, dei Daniels (Daniel Kwan e Daniel Scheinert), film che combina tutti i generi e in cui appunto avviene Tutto Ovunque Contemporaneamente sia alla protagonista che allo spettatore, visivamente coinvolto in un vortice di immagini provenienti da una miriade di universi paralleli con tutte le situazioni e soluzioni narrative possibili.
La vicenda di fondo sembrerebbe abbastanza comune: Evelyn, appartenente alla comunità sino-americana, gestisce con il marito – che vorrebbe presentarle le carte per il divorzio – una lavanderia a gettoni, ma si trova nei guai con una zelante ispettrice dell’agenzia delle entrate; in più, non sa veramente accettare la relazione della figlia Joy con un’altra ragazza, ma trascinata nel multiverso da una versione alternativa di Waymond, il marito, arriverà a una prospettiva più positiva della sua vita.
Evelyn si ritrova anche abilissima con il Kung Fu: del resto troviamo nei suoi panni Michelle Yeoh, già conosciuta per film come ‘La tigre e il dragone’ di Ang Lee, affascinante un tempo e bella qui nella sua semplicità di donna comune, iperattiva e meditativa, dotata di uno sguardo incapace di concentrazione, talvolta stupito, talvolta sorridente e per questo incline a vedere ciò che altri non vedono. Del resto l’occhio è un simbolo ricorrente nel film, dallo specchio tondo che inizialmente ci porta nel mondo ordinario di Evelyn ai cerchi bianchi con pupilla nera dipinti sui sassi pensanti di un pianeta apparentemente senza vita e quindi senza frenesia, mentre nero con centro bianco è il bagel di antimateria della versione malvagia di Joy, tanto che alla fine ci si sente indotti, come attraverso un terzo occhio, a una meditazione sull’impermanenza dell’esistente, oltre che al divertimento per l’uso bizzarro e per l’estro combinatorio di oggetti e comportamenti più o meno comuni o strampalati.
L’occhio è anche obiettivo su una dimensione metacinematografica, e numerose sono le citazioni, come, tanto per dire, il richiamo all’alba dell’uomo in ‘2001: Odissea nello spazio’, i riferimenti ai grandi blockbuster fantascientifici e fantasy della Marvel, l’omaggio al cinema di Hong Kong, l’ambientazione in una lavanderia a gettoni come in ‘My Beautiful Laundrette’ e in tanti altri film, sempre tenendosi in equilibrio fra la produzione popolare e quella ‘indie’. Convincente l’Oscar per la miglior attrice a Michelle Yeoh e quello per il miglior montaggio a Paul Rogers.
“Ora so com’è il metaverso”, ha detto commentando il suo stato d’animo Brendan Fraser dopo aver ricevuto l’Oscar come migliore attore per l’interpretazione di Charlie nel film ‘The Whale’ di Darren Aronofsky, ma qui non si rappresentano universi paralleli e infinite dimensioni virtuali, ma la discesa agli inferi di un uomo smisuratamente obeso, confinato su una sedia che a fatica lo contiene, nello spazio chiuso di una casa, con un effetto claustrofobico accentuato dal formato 4:3 e dall’assenza di luci di scena.
Aronofsky, come in altre sue opere, fa del corpo umano, deformato e deturpato fino all’estremo del realismo, un documento e un’allegoria di un disagio esistenziale; la performance di Brendan Fraser, costretto dal trucco e da un enorme costume che rende difficile e trasforma ogni suo gesto, è veramente eroica, molto di più – come egli stesso ammette – di quanto non siano stati i ruoli che in passato gli hanno dato successo, come nella trilogia de ‘La mummia’. Charlie, che sconta con la bulimia, senza elaborarli, i lutti e gli abbandoni della sua vita e quelle che lui ritiene le sue colpe, si relaziona solo in videoconferenza, a telecamera spenta, con gli studenti a cui fa lezioni universitarie di scrittura, e con le poche persone che, attraverso la porta, entrano nella sua vita e talvolta cercano di aiutarlo, ma soprattutto con la figlia adolescente che aveva abbandonato, che è incattivita con lui e a cui, sentendosi vicino alla morte, vorrebbe destinare ciò che ha guadagnato. L’immagine dell’umanità che ne deriva è pessimistica, ma Charlie è alla ricerca della verità e finisce per svelarsi ai suoi sconcertati allievi e vorrebbe stabilire un rapporto autentico con Ellie (Sadie Sink), di cui esalta proprio la sincerità, manifestata in un suo vecchio saggio di terza media.
Il riferimento alla ‘balena’, Moby Dick, è presente sin dal titolo, non tanto per lo scontato riferimento alla stazza di Charlie, quanto per la lotta faustiana e ossessiva del capitano Achab con il capodoglio, simile al biblico Leviatano, in cui egli proietta tutto il male che avverte dentro di sé e nel mondo, in contrasto con i trascendentalisti dei tempi di Melville, che nella natura coglievano la presenza del divino. Charlie invece ingloba questa lotta dentro di sé, e nel momento finale (la morte, la liberazione, la ritrovata sintonia con Ellie?) sente di aver fatto qualcosa di buono per gli altri, per Ellie. La porta, tante volte rappresentata nel cinema americano come varco verso un paesaggio sconfinato, un’avventura, un mondo altro, si apre per lui verso la luce della spiaggia di un felice ricordo, e ogni peso, ogni impedimento fisico sparisce. Brendan Fraser, già commosso fino alle lacrime durante la standing ovation di sei minuti al Festival di Venezia, ha sentito questo film come segno della sua rinascita dopo anni difficili, ma anche lo sceneggiatore e autore dell’omonima pièce teatrale, con un finale diverso, Samuel D. Hunter, ha creato un testo in parte autobiografico.
Il difetto del film è probabilmente il suo essere troppo aderente agli schemi teatrali, ma è difficile non essere toccati dall’inaspettata sincerità dell’interpretazione di Brendan Fraser.
(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)