di DANILO SANGUINETI
Tokyo indimenticabile. Ogni record possibile e immaginabile è stato frantumato. Maggior numero di medaglie (40) in una Olimpiade estiva, settimo posto nel ranking mondiale, primi nella Ue, secondi in Europa. La qualità ancor meglio della quantità: tra le dieci medaglie d’oro alcuni successi leggendari, trionfo in specialità che erano sempre state precluse a noi abitanti dello Stivale, anzi sembravano negate a noi ‘italioti’ sub specie aeternitatis: il salto in alto maschile, i 100 metri piani e la 4×100 maschile.
Il Levante si era affacciato alla grande rassegna sotto i cinque cerchi con una pattuglia di rappresentanti minuscola ma agguerrita: ha visto le sue aspettative andare in parte esaudite anche se forse non ha avuto le risposte che sognava.
Il nuotatore Alberto Razzetti, l’allenatore di scherma Giacomo Falcini e i pallanuotisti Stefano Luongo e Niccolò Figari hanno affrontato discipline che in passato ci riservarono soddisfazioni enormi. Tornano da Tokyo con un bilancio in positivo, con una sfumatura di innegabile delusione per i due pallanuotisti. Per tutti e quattro era l’esordio olimpico, il dato che li accomuna è il non aver sparato l’ultima cartuccia, il pensiero che per tutti e quattro quello di domenica 8 agosto non sia stato un addio ma solo un arrivederci al braciere dove arde il fuoco sacro di Olimpia.
Il sestrese Alberto Razzetti ha comunque fatto qualcosa di importante. A 22 anni, con una carriera di record giovanili infranti uno dopo l’altro e l’essersi definitivamente imposto sulla scena internazionale come mistista di assoluto livello, primati italiani stracciati e piazzamenti importanti alle rassegne internazionali, serviva la controprova contro i più forti del pianeta. Razzetti, che dopo Sestri e Genova si è trasferito a Ostia ed è seguito da un guru come Giovanni Franceschi, partiva con il piede giusto. Secondo nella batteria di qualificazione dei 400 misti, l’ultima della serie, qualificandosi per la finale con il quinto tempo assoluto, un ottimo 4’09’’91, a soli 3 centesimi dal record italiano stabilito da Luca Marin nel 2007.
Nella finale dei 400 metri misti si imponeva l’americano Kalisz, oggettivamente fuori portata per gli altri. Razzetti si piazzava all’ottavo posto con il tempo di 4’11’’32. Se avesse ripetuto il crono del mattino sarebbe salito sul secondo gradino del podio. Purtroppo il dover disputare una gara così massacrante a distanza di tempo assurdamente ravvicinata (esigenze televisive dettate dai network Usa che volevano vedere i loro beniamini gareggiare nei loro prime time) è costato caro al ‘razzo della Bimare’.
Razzetti aveva girato al secondo posto dopo la frazione a delfino, perdendo però tutto il terreno nel dorso, il suo tallone d’Achille, senza recuperare a rana e stile. Ancora più beffarda per Razzetti la gara dei 200 misti. In batteria faceva segnare 1’57”70, quinto nella poule e nono tempo assoluto, ossia il primo dei non qualificati alla finalissima. Fuori per un’inezia dato che il suo tempo era solo di sei centesimi di secondo peggiore di quello della leggenda vivente, Laszlo Cseh, l’ungherese che per diversi anni era stato praticamente imbattibile nella specialità. Rammarico ma senza esagerare: per un rookie finire ottavo e nono al mondo ad un’Olimpiade è in bel modo per iniziare. Una prima presa di contatto con una realtà completamente diversa rispetto gli altri impegni affrontati sin qui.
Il discorso vale a maggior ragione per il maestro e alfiere della Chiavari Scherma, Giacomo Falcini, al seguito del team azzurro di spada come collaboratore del c.t. Sandro Cuomo. Per il 40enne Giacomo è stata un’avventura assai istruttiva Per le competizioni, ma anche per le condizioni particolari nelle quali ha dovuto lavorare (pandemia, villaggio olimpico blindato, esami clinici ogni 48 ore). In sovrappiù le tensioni e le delusioni vissute dai suoi compagni di cordata sono state notate e rese pubbliche con contorno di polemiche. Per fortuna e per abilità del gruppo la squadra femminile di spada seguita da Giacomo è stata capace, una delle poche, a mantenere fede ai risultati ottenuti in precedenza, anzi a ottenere una medaglia di bronzo che alla vigilia non era affatto scontata. Falcini da vero uomo di sport ha sottolineato nel suo bilancio a fine esperienza come sia servito tutto, il bello e il brutto, e che anche gli errori sono stati importanti per capire dove e come si possa migliorare.
Nelle sue parole il primo pensiero alla famiglia dalla quale era dovuto rimanere lontano per mesi. “Si torna a casa dalle mie quattro principesse (la moglie e le tre splendide figlie, ndr). Una stupenda avventura che mi ha regalato un susseguirsi di emozioni fortissime e contrastanti. Onorato di aver lottato, gioito e sofferto. Lo sport e la vita in generale ci insegna in ogni istante e questa penso sia stata una di quelle lezioni in cui torni a casa con le pagine del quaderno piene di appunti preziosi. Grazie a tutti quelli che hanno condiviso con me questa esperienza”.
A lodarlo ci ha pensato il suo Commissario Tecnico, Sandro Cuomo: “La spada femminile è tornata sul podio Olimpico dopo 25 anni, da Atlanta 1996. Dopo il bronzo agli europei, bronzo al mondiale, arriva anche il bronzo olimpico per una squadra che ormai convince sempre di più. Una medaglia che vale oro e che arriva da un gruppo meraviglioso di ragazze, che va esteso anche a chi è rimasto a casa ma ha lavorato per raggiungere questo obiettivo. Un ringraziamento a tutti i tecnici personali, ai preparatori Edoardo Kirschner e Andrea Vivian, allo staff medico e agli uffici federali per aver contribuito al raggiungimento dell’obiettivo. Grazie soprattutto ai miei ‘bracci’ destri e sinistro Giacomo Falcini e Luigi Mazzone, insostituibili nei loro ruoli, che hanno dovuto sorbire e assorbire le mie ansie, dubbi e preoccupazioni…”.
Il sorriso più mesto è quello del pallanuotista Stefano Luongo, chiavarese, 31 anni, campione mondiale in carica (Kwangju, Corea del Sud 2019) che pensava alla sua prima convocazione olimpica di poter almeno bissare il suo argento europeo di 11 anni fa. Anche se nel team azzurro erano in molti a pensare che si potesse fare meglio che a Londra 2012 (argento) e Rio 2016 (bronzo), ossia tornare a vincere l’Olimpiade dopo il successo da leggenda di Barcellona 1992. L’Italia di Sandro Campagna era un misto di giovani e di esperti, tra essi Luongo che aveva riconquistato un posto da titolare dopo una rincorsa durata nove anni.
Quasi lo stesso percorso per il recchelino Niccolò Figari, 33 anni, che arrivò assieme a Luongo, che venne scartato e poi riammesso proprio in tempo per i Mondiali di Shangai 2011. Il titolo iridato non gli bastò per essere convocato per Londra 2012. Assente anche da Rio 2016, tornò nel giro azzurro in tempo per la spedizione in Corea del Sud che due anni fa fruttò il secondo oro iridato.
Rimasto nel giro azzurro, anche per lui l’esordio olimpico è stato quanto mai amaro. È andato quasi tutto storto. Nel girone eliminatorio pareggi con Ungheria e Grecia, vittoria miracolosa sugli Usa (12-11), vittorie facili su Giappone e Sudafrica. Italia seconda nella poule trovava la quarta dell’altro raggruppamento, che era a sorpresa la Serbia. L’impatto con il team campione olimpico in carico si rivelava devastante. Una sconfitta senza appello, 10-6, che estromette gli azzurri dal giro medaglie. Sconfitti anche dagli Usa (7-6) e vincitori per il rotto della cuffia del Montenegro (18-17 ai rigori) gli uomini di Campagna dovevano accontentarsi del settimo posto. E le parole del C.t. a fine torneo fanno presagire cambiamenti radicali in vista di Parigi 2024. Eppure Stefano e Niccolò non intendono darsi per vinti. L’età non è un problema. In fin dei conti molti dei campionissimi serbi, vincitori poi dell’oro, hanno 34-35 anni, l’età che i due atleti del Levante avranno al prossimo ‘giro’ a cinque cerchi. Il discorso vale a maggior ragione anche per Alberto e Giacomo: quello che il Sol Levante non ha portato potrà arrivare sotto la Tour Eiffel?