di ORESTE DE FORNARI *
Sono usciti tra marzo e aprile gli ultimi film di due autori la cui notorietà e influenza sulla pubblica opinione va oltre i confini del cinema. L’uno, Walter Veltroni, ex politico di lungo corso, già segretario del Partito Democratico e sindaco di Roma, ancora attivo come scrittore e regista di film e documentari, l’altro, Nanni Moretti, punto di riferimento della gioventù progressista negli anni ’80, ’90 e oltre (soprattutto all’epoca dei ‘girotondi’ di cui era promotore), ha diretto in quarant’anni quattordici film, vincendo tra l’altro una Palma d’oro a Cannes. I loro ultimi film hanno in comune il fatto di sfiorare il genere della fantapolitica, ovvero della storia fatta con i se e nutrita da un fondo di rimpianti e rimorsi.
Il film di Veltroni ‘Quando’ narra di un militante del PCI, che durante i funerali di Berlinguer, nel 1984, a seguito di una caduta entra in coma e si risveglia 31 anni dopo. Grande stupore. Il suo partito non c’è più, neanche la storica sede di Botteghe Oscure c’è più, e neanche l’Unione Sovietica e non ci sono più le osterie con i militanti che cantano ‘Bella ciao’, sostituite da ristorantini trendy specializzati nella nouvelle cuisine, simbolo di involgarimento del costume (in questo pensarsi sopravvissuti a una calamità epocale la dimensione fantapolitica, seppur suggerita con il sorriso). Se il modello come è stato notato, potrebbe essere ‘Goodbye Lenin’, salta agli occhi che il precedente tedesco è ben più motivato. La caduta del muro e la fine della Germania Est e di tutto il blocco sovietico sono ben più traumatici per una militante tedesco orientale di quanto la scomparsa del PCI può aver rappresentato per un giovane militante romano. Il partito all’epoca non era al governo e non c’era mai stato, mentre il suo diretto erede il PDS, avrebbe vinto elezioni del ’96 e avrebbe dato vita al governo Prodi (con Veltroni vicepresidente). E se non ha più un giornale, ha un telegiornale. Dunque la sinistra è meno lontana di un tempo dalla stanza dei bottoni, e non avrebbe motivo di rimpiangere l’epoca in cui non governava. Perciò il paradossale spunto di partenza, lo shock per il risveglio in un mondo completamente cambiato, non poteva reggere tutto il film a meno di svilupparlo in uno stile altrettanto paradossale, con il protagonista che impazzisce o si fa frate. Ma Veltroni non è Bellocchio e nemmeno Almodovar. Invece è apprezzabile il tono leggero, quasi edificante, che a tratti imprime al film, grazie all’aria stordita di Neri Marcorè (più un Harry Langdon che un Jean-Pierre Léaud), affiancato da Valeria Solarino nel ruolo della suora che lo accudisce e lo consola, e che per lui potrebbe gettare la tonaca alle ortiche (somiglia a Florinda Bolkan ma a noi ricorda le ‘Orsoline di Rai3’ di epoca Guglielmi).
Di più alte ambizioni e di più articolata drammaturgia, il film di Moretti, ‘Il sol dell’avvenire’, in cui il regista adotta la forma mosaico, come già anni prima ne ‘Il caimano’, con salti dal presente al passato, dalla realtà alla finzione, al musical, al cinema nel cinema.
Vi si narra di un regista (lo stesso Moretti) che gira un film ambientato al tempo della rivoluzione ungherese del ’56. Il responsabile di una sezione del PCI (il bravo Silvio Orlando) esita a diffondere la notizia e attende disposizioni dalla segreteria. Il caso vuole che a Roma si trovi di passaggio un circo ungherese. Tra il pubblico si intravedono i notabili del partito, compresi Togliatti e la Jotti…
Il film dunque si svolge su almeno due piani temporali, la vicenda al presente del regista e il film nel film ambientato nel ’56: per questo secondo film il regista si prende una licenza con la storia del partito e immagina un utopistico lieto fine in cui il PCI approva la rivoluzione ungherese e solidarizza con i rivoltosi (nella realtà, tanto per ricordarlo, Pajetta in Parlamento gridava ‘Viva l’Armata Rossa!’). E assistiamo a una festosa sfilata di militanti italiani e di circensi ungheresi sotto a un ritratto di Trotsky. Ipotesi che lascia perplessi. Siamo sicuri che i russi sotto Trotsky sarebbero stati più liberi che sotto Stalin? Anche questo prendere le distanze dallo stalinismo rischia di sembrare il solito mea culpa troppo incerto, oltre che tardivo.
In quanto al film, giudicato come film, sul piano espressivo, è apprezzabile tutto quello che riguarda la vita coniugale del protagonista (Margherita Buy sempre perfetta nei ruoli di donna in crisi), mentre la satira di costume non è inedita. Moretti non rinuncia a farci partecipi delle sue solite idiosincrasie: film violenti, piattaforme televisive, calzature femminili (invece sembra approvare i monopattini elettrici, chissà perché); quando fellineggia poi, non è abbastanza bravo né abbastanza maldestro. Però il momento in cui suggerisce al giovane come corteggiare la ragazza al cinema è commovente. Ci sono insieme il piacere della paternità e il piacere della regia, uniti al senso dell’invecchiare, per il regista nel film e per il regista del film. Inevitabilmente i due sogni di sinistra (o meglio le due ipotesi su cosa e come sia ancora possibile sognare, o rimpiangere) non sono risultati all’altezza delle intenzioni. Possibili modelli come Zavattini e Frank Capra rimangono lontani. Ma la tendenza è interessante e i due ex ragazzi prodigio vanno incoraggiati.
(* giornalista, critico cinematografico e autore televisivo italiano)