di DANIELE LAZZARIN *
C’era una strana atmosfera quest’anno al festival di Venezia dietro alle immagini di sempre, ai siparietti delle aspiranti fotomodelle e alla folla – meno numerosa del solito – assiepata davanti al red carpet; la celebrazione lasciava trapelare una riserva, un bisogno un po’ ipocrita di giustificarsi: c’erano le ragioni del grande mercato globale del cinema, ma insieme il bisogno di non mostrarsi indifferenti di fronte alle tragedie che agitano il mondo, e dalla memoria non si allontanavano le immagini di Gaza.
Non si tratta necessariamente di una contrapposizione, ma le contraddizioni sono emerse al momento della premiazione, come sempre oggetto di polemiche, questa volta con qualche ragione in più. Si attendeva infatti la vittoria di The Voice of Hind Rajab della regista tunisina Kaouther Ben Hania per il forte impatto emotivo che sin dalla prima il film ha avuto sul pubblico, alzatosi ad applaudire dopo un attimo di esitazione dettato dalla verità del dolore rappresentato.
L’intreccio, infatti, ricompone in un’unica drammatica narrazione due piani distinti, la finzione cinematografica e il reale documento umano. Si ricostruisce ciò che è accaduto in un centro della Mezzaluna Rossa a Ramallah: dopo una drammatica richiesta di aiuto si cerca di stabilire un contatto con una bambina di sei anni, imprigionata in un’auto colpita da un carro armato israeliano e circondata dai cadaveri di zii e cugini; a rispondere al cellulare è però la vera voce di Hind Rajab, registrata poche ore prima della sua morte e della distruzione dell’ambulanza che stava per salvarla. Fino al tragico epilogo l’apice del climax drammatico non sembra mai raggiunto; il contatto con la bambina, che miracolosamente ha risposto, viene più volte perso e ristabilito; il comportamento degli attori è improvvisato e impulsivo: Omar, il telefonista che per primo ha parlato con Hind, aggredisce verbalmente e quasi fisicamente il supervisore Mahdi, costretto ad affrontare un impersonale e inesorabile sistema kafkiano per ottenere il permesso di intervenire e un itinerario “garantito” dall’IDF. Mentre i due uomini restano quasi paralizzati dall’impotenza, altre due volontarie, Rana e Nisrin, vincendo l’angoscia tentano di rassicurare la bambina, la cui voce è sempre più debole e disperata.
Il nemico è invisibile, ma si sa che dispone di un dispositivo a infrarossi per vedere chi c’è all’interno dell’automobile; viene percepito come l’alieno di un horror fantascientifico. Vi è un’ambulanza in un punto di soccorso a soli otto minuti di distanza, ma senza permesso andrebbe incontro a un sicuro annientamento. Messa in scena e recitazione non sono impeccabili, ma sappiamo che la regista ha voluto che gli attori reagissero spontaneamente, ascoltando in una cuffia per la prima volta quella voce che invoca aiuto; lo spazio è chiuso e le riprese sono mosse e seguono gli scatti di Omar. Della vera protagonista, Hind o Anood come lei stessa dice all’operatrice di chiamarsi, abbiamo solo il ritratto suggerito dalle sue parole e dal suono della sua voce, affiancata dall’immagine finale che la mostra, come in un passato ormai lontano, sorridente sulla spiaggia (sì, proprio sulla spiaggia di Gaza) che lei tanto amava.
Il film quindi si basa su una concezione e su una sceneggiatura semplici e non è tecnicamente perfetto, ma sicuramente è innovativo, non solo perché come La zona di interesse di Jonathan Glazer, che è tra i produttori esecutivi al pari di Joaquin Phoenix, presente in sala, evoca l’orrore e il male senza mostrarli, facendoci sentire al di qua di un muro di indifferenza e impotenza, ma perché ha l’immediatezza di un instant movie, costruito intorno alla voce vera, non ancora spenta, di una bambina che chiede solo di poter vivere. Naturalmente proprio questo ha suscitato polemiche e non è mancato chi ha definito il film “ricattatorio”. La regista Kaouther Ben Hania, che prima di tutto ha chiesto alla madre di Hind il permesso di far sentire quella voce, ha rivendicato all’arte del cinema il compito di far durare e vivere quello che nei social media commuove per un attimo, per essere poi rimosso e dimenticato.
Il film meritava il Leone d’oro? Gli è stato invece assegnato il Leone d’argento, cioè il Gran premio della giuria, che in questo modo ne ha riconosciuto l’eccezionalità senza mostrare il coraggio di arrivare fino in fondo, scegliendo per il primo premio un film non disturbante: Father Mother Sister Brother è infatti un’opera autoriale, sebbene non indispensabile e non memorabile, che coinvolge ma suscita pure qualche sbadiglio, nonostante il cast di grandi attori e la regia di Jim Jarmusch, maestro del cinema “indipendente” americano.
Difficile da accettare è poi la scelta di attribuire il Leone d’argento per la miglior regia a Benny Safdie, talentuoso autore a sua volta “indipendente”, che qui diversamente dal solito lavora senza il fratello Josh, per il film The Smashing Machine: un biopic con punti in comune con l’omonimo documentario di John Hyams sul lottatore di arti marziali miste Mark Kerr, appartenente a un genere affrontato con ben altra efficacia da registi del calibro di Scorsese, con Toro scatenato, o di Aronofsky, con The Wrestler, vincitore nel 2008 del Leone d’oro (indimenticabile Mickey Rourke nella parte di Randy). Il titolo onomatopeico The Smashing Machine descrive bene il protagonista, una montagna di muscoli programmata per combattere, che nella maggior parte delle scene di vita privata mantiene un atteggiamento pacato, creando però nello spettatore l’ansia che quel misurato controllo possa improvvisamente cedere alla furia distruttiva: il compito di incarnare il difficile equilibrio è affidato a Dwayne Johnson, noto con lo pseudonimo di The Rock, superstar del wrestling ed eroe del cinema d’azione. I critici mainstream si sono sforzati di valorizzare nel film percorsi psicologici di accettazione della sconfitta, di lotta contro la dipendenza da oppiacei, di redenzione e rassegnazione, e di giustificare il carattere elementare e stereotipato del linguaggio e dei dialoghi come rappresentazione – però senza alcun distacco o ironia – dell’America profonda. Restano impressionanti le scene di lotta sul ring, le gragnuole e martellate inesorabili di colpi, pugni, ginocchiate e quant’altro, sferrate per annientare l’avversario, con riprese ravvicinate che dimostrano l’abilità della regia, ma non arrivano a suscitare alcun pathos, anche se probabilmente faranno di questo film un blockbuster di successo presso il pubblico che ama le lotte gladiatorie. Sorge lecitamente il dubbio che il festival di Venezia si stia trasformando in una fase preliminare, magari preselettiva, dell’apoteosi dell’industria americana del cinema celebrata negli Oscar.
Qualche riconoscimento in più avrebbe meritato il cinema italiano, notoriamente in crisi, ma onorevolmente rappresentato in concorso quest’anno. Non desta stupore l’attribuzione della Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile a Toni Servillo, nei panni di Presidente della Repubblica nel film quasi istituzionale di apertura della Mostra, La grazia di Paolo Sorrentino. Sembra troppo poco il collaterale, sebbene prestigioso, Premio Pasinetti assegnato a Valeria Bruni Tedeschi per la sua performance in Duse di Pietro Marcello, che mette in scena gli ultimi anni di vita dell’attrice, già ispiratrice delle più note liriche dannunziane in Alcyone; nata nel Teatro in cui nella realtà storica morrà, Eleonora Duse torna sul palco dopo la prima guerra mondiale, non riuscendo però a dar voce alle inquietudini dei tempi, segnati dall’ascesa del fascismo ed evocati in un montaggio pittorico che integra immagini storiche di repertorio a quelle di un continuo viaggiare. Non sappiamo fino a che punto Valeria Bruni Tedeschi interpreti se stessa piuttosto che la “divina” con una recitazione, appunto, un po’ teatrale, mai crepuscolare: la più grande attrice della Belle Époque, considerata perfino superiore a Sarah Bernhardt, non amava farsi fotografare e a poco serve l’unico melodrammatico film muto, Cenere, che la vede come protagonista. Era universalmente nota per la sua spontaneità ed espressività che la rendevano capace, sebbene recitasse sempre in italiano, di commuovere un pubblico internazionale e di colpire perfino Stanislavskij, fondatore del futuro metodo, ma è probabile che il suo stile fosse al di sopra delle righe, assecondando il gusto contemporaneo. La Tedeschi comunque non fallisce nel comunicare la fede incrollabile della Duse nell’arte, che per lei si sostituiva alla sua stessa esistenza e superava la morte.
Fede nel potere dell’arte, questa volta cinematografica e satirica, esprime anche il regista Ali Asgari nel suo film, presentato nella sezione Orizzonti, Komedie Elahi – Divine Comedy, che grazie alla distribuzione di Teodora potrà girare nelle sale. È qui descritto il peregrinare per le vie di Teheran sul sellino posteriore di una Vespa rosa guidata dalla sua produttrice del regista Bahram, che “libertà va cercando” per poter proiettare il suo film, bocciato dalle ottuse autorità preposte alla censura (dello stesso autore si ricorderà Kafka a Teheran). Del titolo del poema dantesco Asgari offre un’interpretazione originale: il potere politico in Iran (ma non solo) mette in atto una commedia, spesso – si potrebbe aggiungere – una tragica farsa, per poi giustificare e addirittura sacralizzare le proprie malefatte come dettate dalla volontà divina.
(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)