di DANIELE LAZZARIN *
Immagini di Tokyo scorrono davanti ai nostri occhi quasi in continuità con una passione e un interesse che richiamano alla mente Tokyo-Ga, “fotogrammi di Tokyo”, film realizzato fra 1983 e 1985 che Wenders dedicava a Yasujirō Ozu, a poco più di vent’anni dalla sua morte, e che ha come protagonista la città, incredibilmente cambiata rispetto ai tempi del maestro, già testimone dello scontro tra l’antica cultura e la modernità post-bellica del Giappone. Ora, in Perfect Days, con inquadrature ben definite in formato 4:3, vediamo l’interno di una casa, assolutamente essenziale come nella più frugale tradizione, e all’esterno la torre della televisione, costruita a immagine della Tour Eiffel e un tempo simbolo iconico di Tokyo, oggi ormai superata dall’altissima Tokyo Sky Tree; vi sono poi i trafficati nastri autostradali e le sopraelevate che attraversano la megalopoli, con guida rigorosamente a sinistra ma non per influenza britannica, e, quasi a sorpresa, le Tokyo Toilets, non solo semplici bagni pubblici, ma piccoli capolavori di architettura contemporanea con vetri che riflettono il cielo e gli alberi, attuati per quelle Olimpiadi a cui pochi visitatori, a causa della pandemia, hanno partecipato.
Non siamo però di fronte a un documentario, magari biografico come il magnifico Il Sale della Terra, dedicato alla grande opera fotografica di Salgado, bensì a una fiction, forse la più sottilmente intensa e compiuta fra quelle realizzate dal regista, a una storia in cui accompagniamo in ogni momento della sua giornata Hirayama – nome che ancora richiama Ozu e Il gusto del sakè – interpretato da Kōji Yakusho, vincitore per questo film del Prix d’interprétation masculine al Festival di Cannes 2023.
Nella sua quotidianità la vita di Hirayama appare semplice e ripetitiva, dal risveglio, ai gesti di cura personale, al suo percorso per andare al lavoro con una vecchia auto o in bicicletta, al suo lavoro di addetto alle pulizie dei bagni pubblici… tutto sembra lento e uguale, ma dopo un po’ ci accorgiamo che il cinema di Wenders è sempre viaggio e movimento che tutto cambia, come in una delle sue poche frasi sottolineerà lo stesso Hirayama. Hirayama parla pochissimo, anzi per un po’ di tempo abbiamo il dubbio che non parli affatto, come fosse immerso in una silenziosa meditazione Vipassana, in osservazione consapevole di se stesso e della realtà che lo circonda; del resto la poetica di Wenders è fatta di sguardi sulle cose, non di parole, ma spesso delle cose ai suoi personaggi sfuggiva il senso, mentre qui lo sguardo del protagonista attribuisce valore e sembra ricercare bellezza in ogni elemento e istante della vita della natura, ma anche nelle cose (transitoriamente) create dall’uomo.
Egli cura il suo lavoro di pulizia in ogni minimo dettaglio, inventandosi perfino dei piccoli strumenti per arrivare più a fondo, ma non vi è nulla di ossessivo e alienante nei gesti che egli compie, anzi riesce anche a giocare a tris con uno sconosciuto frequentatore dei bagni, che lascia lì regolarmente un foglietto e, quando si trova costretto a coprire il turno del giovane collega che si è licenziato, avverte telefonicamente la direzione che sarà per una sola volta: egli ama la pausa pranzo in cui nel parco cerca di cogliere con la sua macchina fotografica analogica il magico momento in cui la luce del sole crea uno scintillio tra le foglie degli alberi, ma non disprezza la tecnologia, esprimendo meraviglia quando la giovane nipote, che lo viene a trovare spuntando dal nulla (si poteva pensare che Hirayama fosse un uomo senza passato) gli mostra il risultato ottenuto fotografando con il cellulare lo scintillio che egli ricerca. Ama anche il momento del pasto serale, consumato prima di tornare a casa in un’anonima tavola calda della metropolitana o nel piccolo locale della gentile Mama, che gli riserva un’attenzione speciale.
Hirayama un po’ fa venire in mente Paterson (cioè Adam Driver), protagonista dell’omonimo film di Jim Jarmusch, un regista che ha in comune con Wenders la collaborazione e l’ammirazione giovanile per Nicholas Ray. Anche Paterson è silenzioso e ricerca nella quotidianità un momento magico, che però traduce nella poesia delle parole, seppure parole essenziali come quelle degli haiku. Per il protagonista di Perfect Days, invece, la poesia è già nelle cose ed egli esprime con i gesti, con gli occhi, con il suo sorriso e la sua commozione un linguaggio interiore, ricco di spontanea espressività, non tenuta a freno e pur emergente come avviene per i personaggi di Kaurismaki.
La giornata di Hirayama è poi contrassegnata dalla musica rock, di cui egli è appassionato come il regista: ad esempio, “The House of the Rising Sun”, canzone tradizionale e poi hit degli Animals, segna l’inizio di una giornata, “Pale Blue Eyes” (Lou Reed e i Velvet Underground) indica una commistione di stati d’animo di felicità e tristezza (“Sometimes I feel so happy; sometimes I feel so sad”) e naturalmente “Perfect Day” di Lou Reed dà il titolo al film e ne suggerisce lo spirito. Wenders condivide con il suo personaggio anche le letture, come Faulkner o Patricia Highsmith, da cui ha tratto L’amico americano, mentre Liliana Cavani ne ha tratto Il gioco di Ripley, tanto che a un certo punto si può pensare che egli si esprima ed esprima la sua filosofia proprio attraverso di lui.
Hirayama non è però un personaggio puramente contemplativo, ma è al centro di un’evoluzione, già anticipata da frammenti di sogni in bianco e nero, con immagini sfocate che si sovrappongono e talora suggeriscono un volto femminile, quasi un’immagine archetipica che sembra riapparire nei volti delle figure di donna che egli incontra e che sono quasi inspiegabilmente attratte da lui, così lontano dalla vita degli altri ma sempre in ascolto; scopriamo che ha un passato, anche se non ne sapremo i dettagli, e alla fine sembra perfino geloso, finché in una scena notturna dialoga con il suo presunto avversario sulla riva di un grande fiume intorno alla vita e alla morte, sulle ombre e sui riflessi: siamo ancora davanti alla poetica visiva di Wenders e al suo riproporre il tema del viaggio, ma in maniera più compiuta rispetto a film giovanili, pensando soprattutto a come il tema della morte era stato affrontato in Lampi sull’acqua – Nick’s movie, che riprendeva gli ultimi giorni di vita del maestro Nicholas Ray. E il sole risorge in un nuovo giorno nel Paese del Sol Levante, davanti agli occhi commossi del sessantenne Hirayama.
Un consiglio agli amanti del Cinema: non lasciare la sala prima della fine dei titoli di coda; si perderebbe la spiegazione del termine komorebi. Non è una didascalica spiegazione del film, ma aiuta molto a cogliere la suggestione che lo anima.
(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)