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di MATTEO MUZIO *
Nelle elezioni presidenziali americane letteralmente ogni voto conta e forse quello decisivo potrebbe arrivare da uno stato poco nominato negli ultimi mesi: il Nebraska. Non perché un territorio famoso per il mais e per essere la residenza dell’investitore Warren Buffett, né perché rappresenta quasi il centro geografico del Paese. Il Nebraska, normalmente uno stato solidamente conservatore, stavolta potrebbe invece essere decisivo per le sorti dei dem.
Andiamo con ordine: intanto nello stesso giorno delle elezioni presidenziali ci sarà un referendum sull’aborto. Anzi, ce ne saranno due. Il primo, promosso dall’associazione Protect Women & Children, cerca di restringere l’interruzione di gravidanza. Il secondo invece mira a inserire nella costituzione statale la protezione di tale diritto. I precedenti, compresa l’iniziativa del vicino Kansas, fanno pensare che a vincere potrebbero essere i favorevoli alla libertà di scelta, anche perché, secondo i sondaggi molti repubblicani, pur sentendosi vicini alle posizioni politiche di destra su fisco, immigrazione e politica estera, su questo tema sono più moderati e preferirebbero non approvare norme troppo restrittive.
Sicuramente però a essere motivati sul voto sarà la controparte progressista che peraltro in uno stato molto difficile ha due obiettivi difficili, ma non impossibili. Bisogna spiegare che lo stato, a differenza di quasi tutti, non assegna i grandi elettori su base maggioritaria. Ad esempio, chi vincerà il già citato Kansas (quasi sicuramente Trump) incasserà i sei grandi elettori. Non in Nebraska, dove l’assegnazione avviene su base distrettuale. E il collegio numero due, che contiene l’area metropolitana di Omaha, favorisce i dem. E visto che il voto andrà sul filo del rasoio e secondo alcune simulazioni su 438 voti elettorali potrebbe anche finire in parità, questo piccolo distretto può essere decisivo. Proprio per questo gli alleati del presidente Trump hanno fatto pressione sul governatore Jim Pillen affinché a poche settimane dal voto cambiasse la legge elettorale in senso maggioritario.
Appello caduto nel vuoto anche per la potenziale cascata di ricorsi giudiziari che sarebbe potuta scaturire da una simile scelta avventata. Non solo: l’indignazione causata dal tentato colpo di mano mette a rischio la rielezione del moderato repubblicano Don Bacon, uno dei sempre più rari centristi del Congresso, che rischia di passare la mano ai dem.
Anche al Senato, dove il partito del presidente Biden deve affrontare una difficile mappa, il Cornhusker State fornisce una flebile speranza. La senatrice repubblicana Deb Fischer, fedelissima del leader uscente Mitch McConnell, ha un alto livello di impopolarità presso gli elettori, che normalmente non vorrebbe dir nulla, data la sproporzione delle forze in campo: nel 2020 Trump ha battuto Biden con il 58% dei voti contro il 39%. Stavolta però i democratici sono spariti. Non hanno presentato nessun candidato.
A rappresentare l’alternativa c’è un sindacalista indipendente, Dan Osborn, con un passato da operaio addetto alla riparazione di macchine industriali e da veterano della Guardia Nazionale statale. Alla Kellogg’s, dove lavorava nel 2021, ha guidato uno sciopero lungo 77 giorni coronato dal successo di un nuovo contratto collettivo. Nonostante un retroterra piuttosto di sinistra, ha rigettato qualsiasi apparentamento per cercare di apparire più appetibile a un elettorato ostile. La mancanza di opposizione da parte dei dem però fa pensare che una volta eletto possa unirsi al gruppo al Senato, sul modello di quanto fatto anni fa da Bernie Sanders. Al momento però va per la sua strada, respingendo persino l’aiuto economico da parte dell’organizzazione nazionale del partito pur quando sarebbe utile per battere lo strapotere della sua avversaria, che ha persino rifiutato l’offerta di un singolo dibattito sui temi importanti dello stato, primo tra tutti la deindustrializzazione che colpisce questo territorio in modo massiccio, così come le difficoltà del settore agricolo di fronte ai cambiamenti climatici negati dai repubblicani.
Una situazione in bilico dove però il margine di azione per i democratici è limitato: qualora si vedesse troppo l’impronta di Kamala Harris, tutte le sfide potrebbero essere perse a causa della sua impopolarità dentro i confini statali. Quindi si lascia la palla ai singoli attivisti e alle campagne porta a porta. Uno sforzo discreto che peròr potrebbe salvare la maggioranza al Senato, fondamentale per le future nomine di un’eventuale presidenza di Kamala Harris. Qualora il controllo finisse in mano ai repubblicani, ci sarebbe quasi sicuramente un’impasse specie per la scelta dei nuovi giudici federali, tema su cui il partito di Donald Trump è poco disposto a trattare. Quindi la candidata dem può solo incrociare le dita. E stare lontana dal Nebraska.
(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)