di DANIELE LAZZARIN *
Mostruosità e innocenza sono due fra le diverse possibili polarità intorno a cui ruota l’intreccio di Kaibutsu (“Mostro”, come nel titolo inglese Monster, mentre nella versione francese e italiana si è preferito un titolo di senso quasi opposto, L’innocence e L’innocenza), film presentato in concorso al Festival di Cannes 2023 e premiato per la migliore sceneggiatura e con la Queer Palm, ma distribuito nelle sale italiane solo quest’anno, e per giunta in agosto. Il maestro Kore’eda ritorna in Giappone, dopo due opere ambientate in Francia e Corea, legate ad esperienze che – come lui stesso afferma in un’intervista – hanno rinnovato il suo modo di lavorare, accogliendo l’offerta di dirigere un film basandosi su uno script non suo, ma di Yūji Sakamoto, noto sceneggiatore soprattutto televisivo, di cui aveva già apprezzato la semplicità stilistica nel trattare le più difficili situazioni relazionali. Ambedue si riallacciano alla tradizione giapponese, di cui Ozu è stato il massimo interprete, prediligendo i temi dei rapporti familiari e degli affetti inespressi, inseriti nelle dinamiche disgreganti della società attuale; particolarmente sensibile è lo sguardo riservato alle condizioni dell’infanzia e della preadolescenza. Come già in Un affare di famiglia (Palma d’oro al Festival di Cannes 2018), dove un gruppo di emarginati finisce per creare un vero nucleo familiare, accogliendo e nascondendo anche una bambina maltrattata, Kore’eda guarda all’autenticità dei rapporti al di là delle rigide convenzioni della società giapponese e dei legami biologici (tema precedentemente affrontato in Father and son e in Little sister), senza cadere nel sociologismo, bensì con un umanesimo e un tocco surreale nel mettere in scena i bambini e il loro mondo alternativo e magico, che quasi richiamano suggestioni del Neorealismo e del primo Fellini.
“Chi è il mostro?”, grida correndo, tra angoscia pervasiva e gioco, Minato (Soya Kurokawa), un undicenne che frequenta la quinta classe: “il mostro” è ciò che teme di essere, raffigurato in un’immagine metaforica squalificante che gli è entrata dentro, quella di un essere umano a cui è stato trapiantato il cervello di un maiale, derivante da un insulto indirizzato dai bulli della scuola non a lui, ma al suo compagno Yori (Yota Hiiragi), considerato strano e asociale, un “alieno”, ma psicologicamente più capace di lui di difendersi, forse perché abituato a sentirsi così classificare dal padre alcolizzato (la madre se n’è andata). I veri mostri, da cui ha origine il fantasma interiore che minaccia il senso di sé di Minato, sono quindi altri: i compagni, il padre di Yori, forse anche Saori (Sakura Andō), la madre al tempo stesso premurosa e condizionante del ragazzo, che non cessa di proporgli il modello del padre, morto però – scopriremo più tardi – in circostanze non proprio edificanti, che viene commemorato di fronte all’altarino familiare e sulla cui reincarnazione Minato si interroga. Ma l’occhio di Kore’eda, che in ogni momento del film segue da vicino, talvolta quasi accarezza ogni gesto ed espressione dei suoi personaggi, non sembra incline a creare categorie e a giudicare: della madre, per esempio, è colta quasi con empatia la fatica quotidiana, la tenerezza e l’orgoglio per quel figlio, verso cui si sente responsabile. Emergono gradualmente, per poi venire smentite, molte verità (Le verità, non a caso, è il titolo di un altro film, quello “francese” del 2019, dell’autore), e il dramma psicologico che si profilava all’inizio sembra avviarsi sulla strada di un giallo ad enigma, richiamando nella sua elaborazione strutturale il modello di Rashomon, con le parallele spiegazioni, tutte apparentemente plausibili, della stessa circostanza. Così prima possiamo credere a Saori, che imputa il forte disagio di Minato alle ingiuste punizioni del maestro Hori, poi emergono il punto di vista e la storia personale di Hori, e infine veniamo introdotti al mondo segreto in cui si rifugiano i due ragazzi, che scopriamo legati da un’amicizia profonda ed esclusiva, che Minato tiene nascosta al mondo degli altri per timore dell’emarginazione e per un intimo, quasi inspiegabile, senso di colpa. Gli enigmi non si sciolgono mai del tutto, e al disorientamento di ogni opinione precostituita contribuiscono i pettegolezzi e le rivelazioni della gente in una città di provincia del Giappone e false piste narrative introdotte dal regista, quasi dei MacGuffin hitchcockiani, come la scena ripetuta di un edificio in fiamme, associata all’immagine di un accendigas, che insinua nello spettatore dubbi senza risposte.
Vi è però un passaggio emblematico del film che offre una chiave di lettura: quando ripetutamente la preside della scuola, il maestro Hori, seppur obbligato e controvoglia, e gli altri insegnanti del consiglio di classe si profondono come automi in inchini e scuse davanti alla madre esterrefatta di Minato, frustrata nella sua esigenza di un chiarimento. L’assurdità straniante (e mostruosa) della scena esprime un attacco al formalismo delle convenzioni e sottolinea l’incapacità delle istituzioni di rispondere alle angosce delle persone in un paese in cui il suicidio, per timore dell’insuccesso sociale, è una vera piaga; il tema è affrontato da Kore’eda in altri film, ma per allusioni anche in questo. Tuttavia il motivo che sta più a cuore al regista è quello della ricerca della felicità, introdotto inaspettatamente proprio dalla preside Fushimi, che nasconde un dolore e un terribile segreto; Fushimi, avvertendo il turbamento di Minato, come ex insegnante di musica lo invita a suonare una tromba e a soffiare via ciò che lo fa soffrire, invitandolo a essere felice, come è diritto di ciascuno. Analogamente durante le riprese Kore’eda chiedeva ai due giovani protagonisti di correre e gridare, per esprimere gioia; così noi seguiamo la corsa a perdifiato di Minato e Yori attraverso un tunnel ferroviario buio e abbandonato, simbolo archetipico delle prove che hanno dovuto e dovranno attraversare, per giungere in una foresta dove si trova il vagone abbandonato di un treno, di cui Yori imita il suono (impossibile non pensare al ragazzo che simula lo sferragliare di un tram immaginario in Dodes’ka-den di Kurosawa), luogo alternativo in cui condividono giochi e momenti di intima amicizia e felicità. La colonna sonora di Ryuchi Sakamoto, morto due mesi prima della presentazione de L’innocenza a Cannes, che per il film ha potuto creare solo due nuovi temi, consentendo l’utilizzo di altri suoi precedenti motivi musicali, sottolinea con contrappunti le diverse verità della storia e il suo lirismo, fino al meraviglioso ma ancora una volta enigmatico finale, che ha l’incanto, la luce e il senso mistico della natura di un cartone di Miyazaki.
(* docente di cinematografia e di linguaggio cinematografico)