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Giovedì 18 dicembre 2025 - Numero 405

L’Fbi di Trump è nel caos: il numero due si è dimesso

Il Bureau, che ha da poco festeggiato i cent’anni di attività, sotto l’attuale amministrazione doveva diventare un’arma politicizzata. Invece sta affondando sotto la cialtronaggine dei suoi vertici
Donald Trump ha vinto con ampio margine le elezioni americane
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Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.

di MATTEO MUZIO *

Uno dei progetti più sinistri della nuova amministrazione di Donald Trump è stata la politicizzazione del dipartimento di giustizia, un tempo abbastanza neutrale.

Basti ricordare che, sotto l’amministrazione di Joe Biden, l’allora presidente rinunciò a nominare l’ex procuratore distrettuale ed ex senatore dem Doug Jones per non dare adito di scegliere un suo caro amico e alleato, preferendogli un autorevole giudice federale, il capo della Corte d’Appello del District of Columbia Merrick Garland, che poi si è rivelato non all’altezza del suo ruolo.

Questa però è un’altra storia. Veniamo all’oggi. Uno dei gioiellini del dipartimento di giustizia, oltre una fitta rete di uffici distrettuali che coprono tutto il paese, è la dipendenza diretta dell’Fbi, il mitico “bureau” nato nel 1924 per combattere la criminalità legata al commercio di alcolici sotto il Proibizionismo, poi divenuto strumento formidabile contro il crimine ma anche, segretamente, impiegata contro vari tipi di dissidenza politica, come ad esempio i movimenti per i diritti civili degli afroamericani.

E veniamo al dunque, all’oggi: se nel 2017 Trump aveva scelto una figura d’esperienza come Christopher Wray, già viceprocuratore generale durante l’amministrazione di George W. Bush, per evitare noie con un gruppo repubblicano ancora non del tutto convinto di lui, oggi ha scelto di nominare come direttore un influencer cospirazionista come Kash Patel, con una remota esperienza come procuratore, e come suo numero due Dan Bongino.

Se il primo si è fatto notare per l’uso spregiudicato dei voli privati e per aver fornito una scorta troppo generosa alla compagna, oltreché per le indagini assai lacunose nei giorni successivi al delitto di Charlie Kirk, risolte poi dalla polizia statale dello Utah, il suo vice, Dan Bongino, ha una storia ancora più paradossale: cinquantunenne, in effetti ha una certa esperienza nel mondo delle forze dell’ordine, come poliziotto a New York e membro del Servizio Segreto (che in America è un corpo che si occupa di scortare il presidente e altre personalità importanti).

Però in un report circolato a maggio alcuni suoi colleghi testimoniano che non aveva alcuna idea di come dovesse svolgersi il suo lavoro, tanto che qualcuno lo ha definito “una specie di clown”. Già a maggio si era lamentato in un’intervista su Fox News del suo lavoro “molto sacrificante” in un ufficio “solitario” a Washington, mentre era abituato a maggior libertà come podcaster per il suo “Dan Bongino Show”. Dove sparava a zero contro lo “Stato Profondo”, colpevole di qualsiasi nefandezza.

Come, ad esempio, della responsabilità della morte del controverso finanziere newyorchese Jeffrey Epstein, capo di un giro di sfruttamento sessuale di ragazze minorenni e legato a numerosi personaggi pubblici. Bongino implicava che ci fosse una potente congrega segreta che teneva nascosta la famigerata lista di clienti, ovviamente capeggiata dai leader democratici. Poi, lo scorso luglio, ha dovuto ammettere davanti al Congresso che questa lista in realtà non esisteva e che la morte di Epstein in carcere effettivamente era stata un suicidio. Una giravolta completa.

Replicata di recente su un altro caso meno noto, quello del bombarolo del 6 gennaio 2021 che ha piazzato due ordigni di fronte alle sedi nazionali dei partiti democratico e repubblicano, evento poi finito in secondo piano dopo l’insurrezione di quel giorno. Bongino comunque aveva una sua teoria anche su quello: un false flag dell’Fbi, ovviamente in mano a forze oscure. Ed ecco che, a inizio dicembre, viene arrestato un sospetto e un conduttore di una rete amica, Fox News, gli chiede conto delle sue opinioni di allora. E la risposta di Bongino è sia sconfortante che desolante: “All’epoca ero pagato per quelle opinioni, qui le mie indagini devono essere basate sui fatti”.

Ed ecco il redde rationem: dopo una sparatoria avvenuta nel campus della Brown University, nella quale il sospettato era stato arrestato e poi rilasciato nel corso di quest’anno, sembra che l’amministrazione Trump voglia proprio scaricare le sue colpe su Bongino. E lo scoop del piccolo giornale conservatore newyorchese New York Sun ci rivela che il suo capo di gabinetto a gennaio assumerà il ruolo di direttore dell’ufficio di Baltimora e che il suo ufficio in sede al momento è vuoto. Una fine ingloriosa per chi aveva promesso di ribaltare il governo e rivelarne i segreti più profondi per poi doversi arrendere di fronte a un’incompetenza assoluta. La cifra di buona parte dell’ultimo trumpismo di governo.

(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)

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