di ANTONIO GOZZI
Le vicende genovesi e liguri di questi giorni lasciano male.
La Regione e il Porto sono stati decapitati dai provvedimenti degli inquirenti che accusano il Presidente Toti e i suoi collaboratori, Signorini (già presidente dell’Autorità Portuale), l’imprenditore Aldo Spinelli e il figlio e altri imprenditori di aver creato un sistema di malaffare e corruzione sistematica e diffusa, incentrato prevalentemente, ma non solo, sulle concessioni portuali.
Le reazioni dell’economia e della società civile sono ovviamente di sconcerto. Abbondano in questi giorni giudizi sulla vicenda che ricalcano i vecchi cliché della questione morale e di una rivendicata differenza genetica che esisterebbe tra destra e sinistra.
Io sono di formazione liberalsocialista e quindi garantista fino al midollo, in 70 anni di vita ne ho viste di tutti i colori, e non ho alcuna intenzione di dare sulla vicenda giudizi sommari.
Lasciamo che i giudici facciano il loro lavoro, così come gli avvocati. Auguro a Giovanni Toti di essere capace di dimostrare la sua innocenza in ordine ai fatti che gli sono contestati, anche se la mancanza di stile e di quella sobrietà che fa grandi i potenti, esposta in pubblico da tutta questa vicenda, certamente non lo aiuterà.
A me interessa, come imprenditore e cittadino a cui sta a cuore il futuro di Genova e della Liguria, fare un altro ragionamento.
La Liguria è una regione che negli ultimi 30 anni ha perso progressivamente colpi vivendo un declino che a poco a poco ci ha condotti alla marginalità.
Calo demografico, in particolare del capoluogo, crisi industriale con la fine del sistema delle PPSS, gravissimo deficit infrastrutturale sono stati i tratti salienti di questa crisi.
A fronte di questa situazione le classi dirigenti tutte, la politica ma non solo la politica, sono state incapaci di una visione e di una reazione al declino. Altri territori italiani correvano e si trasformavano e noi rimanevamo lì.
In particolare sulle infrastrutture, sui collegamenti, sull’efficienza portuale, sulle grandi opere necessarie per uscire dalla crisi e dall’isolamento l’immobilismo è stato totale e in questo, e nell’incapacità di grandi scelte, per molto tempo nessuno, proprio nessuno, ha dato segni di vita.
La vicenda della Gronda è al riguardo emblematica. Ci sono voluti 30 anni per deciderne il tracciato, non sappiamo se e come i lavori partiranno e c’è ancora qualcuno che abita a Genova centro e la osteggia, ignorando la sofferenza di chi tutti i giorni dalle ali della regione deve prendere l’autostrada per venire nel capoluogo. Siamo fuori dall’alta velocità, lo stato delle autostrade è drammatico, ma tant’è…
L’avvento del centro destra in Regione e la vittoria di Toti nel 2015, poi doppiata al turno successivo, non sono figli del caso. Oggi nessuno ne parla ma quella vittoria, imprevista per lo stesso centrodestra, fu da un lato la reazione di vasti strati dell’elettorato all’immobilismo declinante di cui sopra, e dall’altro fu facilitata da una precisa scelta suicida di settori della sinistra più radicale (ed appunto immobilista ) anche all’interno del PD, i quali preferirono consegnare la Regione al centrodestra piuttosto che sostenere una candidata riformista e i suoi contenuti.
La tragedia del ponte Morandi, per eterogenesi dei fini come spesso avviene nelle vicende umane, è il punto di svolta. I governi Draghi prima e Meloni poi mettono a disposizione di Genova e della Liguria ingentissime risorse, mai viste prima. Si parla di 7-8 miliardi di euro da spendere prevalentemente in infrastrutture e collegamenti per ridurre la marginalità della regione. Questi soldi sono arrivati perché i genovesi, con caparbietà, rapidità ed efficienza sono riusciti a ricostruire il Ponte San Giorgio e il simbolo di questa caparbietà è stato il Sindaco Marco Bucci.
È vero che al Sindaco Bucci sono stati attribuiti con una legge speciale poteri commissariali straordinari. L’esperimento però, fino a prova contraria, ha funzionato, tanto che fra gli applausi qualcuno ha parlato di ‘modello Genova’. Procedure snelle e semplificate, se gestite con trasparenza e correttezza, portano a buoni risultati e non sono strumenti di malaffare. Chi oggi dice che quei poteri sono straordinari e che non possono diventare la normalità in realtà non comprende la voglia di praticità e concretezza dei cittadini, e di fatto sembra non tenere in conto delle insopportabili lungaggini di una burocrazia amministrativa guardiana che spesso, per non prendersi responsabilità e correre rischi, blocca tutto.
Le vicende di cui parliamo non possono diventare l’alibi con il quale ripiombare nell’ immobilismo decisionale e nella decrescita “infelice”.
Io sono assolutamente convinto che è possibile fare le cose presto, bene e nella legalità e trasparenza.
Il rapporto e l’interlocuzione continua tra imprese e imprenditori e politica sono, nelle economie avanzate e di mercato, dati necessari ed ineliminabili.
Sono le imprese e gli imprenditori i protagonisti della creazione di valore e di reddito, di occupazione e di innovazione. Pensare di governare territori o nazioni e farli crescere e progredire senza rapporti e interlocuzioni con le imprese e gli imprenditori è follia vetero-comunista o di un più recente populismo declinista.
Certo questo confronto tra imprese e politica è per definizione difficile e complesso perché le imprese sono portatrici di legittimi interessi per definizione particolari, e la politica ha il compito di far sì che questi interessi privati, ancorché legittimi, siano compatibili, o anche meglio funzionali allo sviluppo generale dell’economia e agli interessi della collettività.
Questo compromesso virtuoso è possibile checché ne dicano i nemici delle imprese, degli imprenditori e del mercato che si rifiutano di accettare, per ideologia, che anche le imprese e il mercato siano un bene comune.
Ancor più difficile è trovare questo equilibrio quando ci sono in campo giganteschi oligopoli (come sono normalmente quelli marittimi e trasportistici) che si contendono con le unghie e con i denti spazi e aree pubbliche portuali in concessione da cui traggono grandi guadagni. Ma bisogna trovarlo seguendo i principi della legalità e della trasparenza.
Anche in questo caso, in un capitalismo sociale e di mercato come è quello europeo, le imprese devono essere capaci di sopravvivere generando ricchezza perché questa è la loro missione principale, ma devono dimostrare anche che sono capaci di farsi carico delle esigenze delle collettività.