di MATTEO MUZIO *
Negli ultimi giorni, Donald Trump ha scatenato un acceso scontro con la Federalist Society, l’influente organizzazione conservatrice che ha giocato un ruolo chiave nella selezione dei giudici durante il suo primo mandato. Il bersaglio principale degli attacchi del presidente è stato Leonard Leo, figura di spicco del gruppo, accusato di aver dato pareri inutili sulla scelta dei giudici nel quadriennio compreso tra il 2017 e il 2021.
L’origine di questa rottura è fondata in una recente decisione di un tribunale che ha bloccato l’architettura promossa da Trump, scatenando la sua ira. Non sono nuove le decisioni impulsive dell’attuale inquilino della Casa Bianca, ha quindi deciso di prendere le distanze dalla Federalist Society, criticando aspramente il suo operato e promuovendo una nuova strategia per la selezione dei giudici, più vicina ai valori del movimento Maga. Una novità che però non si capisce bene a cosa porterà, dato che un giudice non qualificato potrebbe non passare il vaglio del Senato.
La rottura assume una tinta particolarmente autolesionista anche rispetto ad altre decisioni inspiegabili prese dal presidente: nel suo primo mandato la Federalist Society ha avuto un’influenza determinante nella trasformazione della Corte Suprema degli Stati Uniti, sottoponendo al presidente una lista da cui attingere per riempire le varie posizioni disponibili nel sistema giudiziario federal di giudici conservatori come Neil Gorsuch, Brett Kavanaugh e Amy Coney Barrett, giunti fino agli scanni della Corte Suprema.
Che succederà adesso? Probabilmente mentre vengono scritte queste parole sono già al lavoro gli “sherpa” del partito che tenteranno di ricucire, anche perché il meccanismo di consulenza costruito dalla Federalist Society ha compiuto un capolavoro lungamente atteso dal partito repubblicano che per decenni, più o meno a partire dagli anni ’50, ha lamentato l’egemonia culturale della cultura giuridica conservatrice, denominata della “Costituzione vivente”.
A partire dal 23 aprile 1982, un gruppo fondato da tre studenti denominato Federalist Society (dal nome del primo partito conservatore del sistema politico americano, il Partito Federalista) ha cercato lentamente di scardinare questo dominio. Grazie a finanziamenti cospicui da parte di magnati d’area, sicuramente. Però anche grazie alle capacità dei tre ideatori che hanno messo a punto una macchina perfetta che ha saputo attirare a sé molti studenti di giurisprudenza non particolarmente ideologizzati con la promessa di favorirne la carriera dopo la laurea.
Dopo questo step, che si è perfezionato con il tempo tanto da portare ad adesioni considerevoli: attualmente si stima che circa ottantamila laureati in legge aderiscano alla società. Insieme a questo, si è fatta un’intensa attività di lobbying presso i politici repubblicani: basta con le nomine di giudici moderati o di centro. Servivano delle persone di “solidi principi” che credessero a una lettura “originalista” (ovverosia semiletterale) della Costituzione. Nessun diritto implicito deve esistere, meno che mai quello di abortire, la cui protezione da parte del governo federale è sfumata grazie alla sentenza Dobbs v. Jackson, emessa nel giugno 2022.
I giudici provenienti dalle loro fila, poi, sono stati particolarmente attivi nello smontare in punta di diritto i provvedimenti approvati dall’amministrazione democratica di Joe Biden e nel ridurre il potere delle agenzie federali di regolamentazione. Allora perché smontare un sistema così ben oliato? Semplicemente perché a Trump non basta più: non vuole persone oneste, bensì fedeli, come disse già nel 2017 in una conversazione privata con l’allora direttore dell’Fbi James Comey. E questi non possono essere i giuristi scelti nel suo primo mandato, gli stessi che hanno mostrato indipendenza anche quando hanno rifiutato di prendere in considerazioni le folli teorie sulle elezioni “rubate” dai democratici nel corso del 2020. Capacità di furto che, ragionando per assurdo, si dev’essere persa nel corso del 2024, quando a vincere è stato nuovamente Trump. Un presidente che però è molto diverso da quello di allora, un populista che però il più delle volte cercava di rimanere nei binari della Costituzione americana. Sull’onda di molti suoi fan sfegatati ed estremisti, ora il tycoon vuole di più, anche se la sua spinta propulsiva a demolire il governo federale, con l’addio al governo da parte del patron di Tesla Elon Musk, sembra andare ad esaurirsi gradualmente.
(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)