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Giovedì 4 settembre 2025 - Numero 390

La morte di Jimmy Carter: cento anni di storia d’America dalla discriminazione razziale a un nuovo modello per tutti

Figlio di un agricoltore, discendente di un soldato confederato, già nei primi anni della sua vita crebbe diverso da altri politici della zona
Jimmy Carter è mancato all'età di cento anni
Jimmy Carter è mancato all'età di cento anni
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Prosegue il nostro rapporto di collaborazione con la piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’, fondata e guidata dal giornalista Matteo Muzio. Il portale di ‘Jefferson’, con tutti i suoi articoli e le varie sezioni, è visitabile all’indirizzo https://www.letteretj.it, da dove ci si può anche iscrivere alla newsletter.

di MATTEO MUZIO *

Nei cento anni della vita di Jimmy Carter, quasi tutto il mondo che lo ha visto nascere, crescere e vivere la sua vita matura e la sua vecchiaia produttiva è mutato radicalmente. Poche cose come la sua parabola di vita mostrano come il Profondo Sud e la Georgia siano stati tutt’altro che immobili durante questi decenni. Da uno stato dominato da un partito democratico profondamente segregazionista che esprimeva figure quasi dittatoriali come Eugene Talmadge, definito dai suoi critici contemporanei quali “l’Hitler georgiano” per la sua violenta retorica razzista e antisindacale fino a oggi dove uno dei due senatori è Raphael Warnock, pastore in una chiesa a maggioranza afroamericana di Atlanta che negli anni ’60 ospitava i sermoni del reverendo Martin Luther King

Dal 1° ottobre 1924 a oggi la vita di James Earl Carter è stata improntata proprio a questo: a essere uno dei fattori positivi del cambiamento. Difficile per chi veniva da un ambiente rurale come quello di Plains, ancora oggi una cittadina con poco più di 500 abitanti prosperata intorno a un nodo ferroviario, concepirsi quale futuro presidente degli Stati Uniti, a maggior ragione in un’epoca in cui le ferite della guerra civile erano ancora presenti nei ricordi degli ultimi veterani e nel crudele regime della segregazione, frutto di un compromesso scellerato che in cambio della pacificazione nazionale consentiva agli stati del Profondo Sud di opprimere gli afroamericani e in misura minore anche i bianchi poveri.

Eppure, il figlio di un agricoltore, discendente di un soldato confederato, già nei primi anni della sua vita crebbe diverso da altri politici della zona: ebbe un rapporto di grande affezione per Rachel Clark, un’anziana affittuaria dell’appezzamento di proprietà di suo padre. Quel mondo apparentemente immobile però non era fatto per Jimmy, che scelse di fare quello che molti altri figli del suo mondo avevano scelto, la carriera militare, facendo la scuola da ufficiale navale ad Annapolis, dove si diploma nel 1946. Dopo il matrimonio con Rosalynn nel 1946, iniziò la sua carriera e la conseguente disponibilità a spostarsi per ragioni di servizio.

Jimmy, riservato e silenzioso, viene scelto dall’ammiraglio Hyman Ryckover per servire a bordo dei sottomarini a propulsione nucleare, un compito delicato negli anni iniziali della Guerra Fredda contro l’Unione Sovietica. Già allora, Carter credeva fermamente nella lotta contro il comunismo, non solo però in termini militari, ma anche morali. E sarebbe stato di sicuro un alto ufficiale, se nel 1953 non fosse improvvisamente morto suo padre James Earl. Carter deve fare ritorno per gestire la terra e la sua coltivazione di arachidi, diventare quello che non avrebbe voluto, ovvero un agricoltore del Sud, con i rapporti di disparità razziali con persone che lui sa essere sue pari, come l’anziana Rachel.

Non può più sfuggire a quel mondo, per quello deve cambiarlo, scegliendo la politica. Prima come senatore statale, poi governatore. Viene eletto nel 1970 a Lester Maddox, nemico giurato della desegregazione decisa prima dalla sentenza della Corte Suprema Brown v. Board of Education del 1954 e poi dalle riforme della Great Society di Lyndon Johnson. Anche Carter si piega all’uso di una retorica razzista per farsi eleggere. Nel decennio precedente il reverendo Martin Luther King, non sempre la figura irenica della memoria pubblica, aveva definito la politica locale come “marcia fino alle radici”. Difficile negarlo, data la presenza di un razzista arcinoto come Herman Talmadge a rappresentare lo stato al Senato, per di più come presidente della commissione giudiziaria, figlio di un governatore, il già citato Eugene, che rese la Georgia tristemente nota come “Lynchtown”.

Appena eletto però, pronunciò questa frase dopo il giuramento: “L’epoca della discriminazione razziale è finita”. In cuor suo però, sapeva che molte altre cose erano finite. Ad esempio, si era rotto quel tacito patto tra Nord e Sud del Paese: le città e gli intellettuali progressisti ottenevano i voti per le nazionalizzazioni del New Deal e in cambio chiudevano un occhio sul razzismo e fornivano i fondi necessari per costruire le infrastrutture. Il patto era ormai rotto e gran parte dei vecchi conservatori sudisti stavano fuggendo verso il partito repubblicano, un tempo simbolo dell’odiato potere nordista. Molte cose erano cambiate e il New South stava offrendo nuove opportunità a chi voleva investire sul territorio, sfruttando i prezzi bassi.

Non stupisce quindi, che lo stesso Talmadge, nel 1970, aveva accolto il vicepresidente Spiro Agnew all’inaugurazione di Stone Mountain, un’immensa scultura monumentale che raffigurava uno accanto all’altro i tre eroi della vecchia Confederazione sudista: il presidente Jefferson Davis e i generali Robert Lee e Stonewall Jackson. Agnew, vice di Richard Nixon, disse che nessuno avrebbe più discriminato il Sud. Anche se l’Atlanta Constitution Journal si aspettava la presenza del presidente, quello fu il segnale che gli ex dixiecrats conservatori erano i benvenuti nelle fila del partito repubblicano.

Carter, quindi, capì che bisognava forgiare una nuova alleanza, che tenesse conto delle sensibilità degli evangelici e dei cristiani pro-life in generale, ma allo stesso tempo che fosse pronta a comprendere che lo stato pesante e la spesa pubblica costantemente in deficit, secondo il modello keynesiano, non poteva funzionare. Con questa piattaforma il misconosciuto governatore della Georgia, nel 1976, riuscì a conquistare la nomination e la presidenza, cavalcando la voglia di facce nuove che c’era in quell’America. E completò un paio di liberalizzazioni che ancora oggi hanno conseguenze: tolse i controlli federali ai prezzi dei biglietti aerei, che consentì la creazione delle compagnie lowcost e rimosse anche le ultime vestigia del proibizionismo, consentendo la produzione artigianale di birra. Carter però non era solo un centrista, antesignano del clintonismo: aveva una particolare attenzione sia all’ambiente (celebre la sua installazione di pannelli solari sul tetto della Casa Bianca, poi rimossi durante l’amministrazione Reagan) che alla difesa dei diritti umani, abbandonando il cinico realismo kissingeriano che ignorava le sofferenze dei dissidenti oltre la Cortina di Ferro, sostenendo il movimento di Charta 77 in Cecoslovacchia e affrontando di petto la minaccia sovietica in Afghanistan a partire dal 1979.

Fece siglare un trattato di pace tra Israele e il più potente dei suoi nemici, l’Egitto, nel 1978. Purtroppo, però aveva anche un messaggio che gli americani di allora non compresero affatto: bisogna ridurre i consumi e ritrovare la fiducia reciproca. Qualcosa si stava spezzando nei rapporti sociali e andava riparato, anche andando verso un modello più frugale. Uno scenario che gli americani di fine anni ’70, già traumatizzati dal disincanto seguito alla sconfitta nella guerra del Vietnam, non potevano accettare di buon grado. Si affidarono a Ronald Reagan, che nel duro confronto con l’Unione Sovietica, ma anche nelle liberalizzazioni e nel contenimento dell’inflazione causata dalle continue iniezioni di denaro pubblico nell’economia. Il mix di Carter però non resse: gli evangelici decisero di aderire al progetto politico della Moral Majority di Jerry Falwell e di legare strettamente le loro fortune politiche ai repubblicani. Carter perse le elezioni nettamente, ma avviò una lunga carriera quale benefattore, costruendo case per le persone con un reddito basso grazie alle attività del Carter Center, inviando osservatori alle elezioni che si tengono nelle democrazie giovani in giro per il mondo. Come presidente Carter ha restaurato la sua reputazione in questa lunga stagione di ritiro, dove si è tenuto lontano dalle conferenze pagate profumatamente e dai consigli di amministrazione. Dopo più di quarant’anni però, è tempo di guardare alla sua presidenza con occhi nuovi e capire cosa allora non venne compreso.

(* fondatore e direttore della piattaforma ‘Jefferson – Lettere sull’America’)

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